Non solo il feroce conquistatore delle cronache bizantine. Diplomazie che si rincorrono, tregue che saltano, odi secolari. Cosa insegna il dramma di Rossini sul medio oriente oggi
Chi l’avrebbe mai detto che Gioachino Rossini, marchigiano col fegato da buongustaio e la penna da fuoriclasse, potesse parlarci, senza volerlo, del medio oriente di oggi? Ma è così. O meglio: lo è se ci si prende la briga di riascoltare Maometto II, dramma musicale del 1820 che mette in scena, tra gorgheggi e catastrofi amorose, il sultano ottomano mentre assedia Negroponte, si innamora della figlia del nemico, e finisce per causare un disastro più sentimentale che militare. Se vi sembra lontano da Gaza e Tel Aviv, aspettate un attimo. Rossini non aveva certo in mente Netanyahu o Hamas (né il Mossad né la Cpi), ma la sua opera ci racconta un conflitto tra civiltà, potere e identità, incastonato in una storia d’amore impossibile. Cosa c’è di più contemporaneo? Nel libretto di Cesare della Valle, Maometto II non è il feroce conquistatore delle cronache bizantine, ma un uomo diviso tra la spada e il cuore. Come ogni politico moderno, insomma: deve fare la guerra, ma sogna la pace (o almeno un po’ di quiete domestica). Ama Anna, figlia del comandante veneziano che sta per uccidere, e si ritrova a combattere contro i suoi stessi sentimenti. Se sostituite Maometto con un leader qualunque del XXI secolo e Anna con una città martoriata – scegliete voi tra Rafah, Tel Aviv o Khan Yunis – il parallelo regge. I personaggi rossiniani, travolti dalla logica del potere e dell’appartenenza, non riescono a sottrarsi alla spirale della violenza, proprio come le leadership attuali, intrappolate in narrative identitarie così granitiche da far impallidire il marmo di Carrara.
Il cuore di Maometto II, al netto delle cabalette e dei finali tragici, è la tragedia dell’incomunicabilità. Maometto cerca Anna, Anna lo respinge. Maometto vorrebbe unire, ma finisce per distruggere. E’ la storia di ogni tentativo fallito di dialogo: diplomazie che si rincorrono, tregue che saltano, popoli che si odiano da troppo tempo per sapere perché. Rossini, ironia della storia, scrive questa storia mentre l’Impero ottomano è ormai il “malato d’Europa”. Oggi, a distanza di due secoli, c’è di nuovo un impero (mediatico, ideologico, tecnologico) che osserva il conflitto israelo-palestinese da lontano, commenta, giudica, si indigna e poi cambia canale. E intanto, sul palco, Rossini ci ricorda che la tragedia non nasce dal male assoluto, ma dall’impossibilità di riconoscere l’altro, soprattutto quando l’altro ti costringe a rivedere te stesso. Sì, Gaza oggi potrebbe essere un teatro rossiniano. Non per la musica (là ci sono solo sirene e droni) ma per la dinamica teatrale: ruoli fissi, sentimenti proibiti, scene che si ripetono. Il comandante che resiste fino alla morte, l’amante tradito, la città che cade. Cambiano i nomi, ma la partitura è sempre quella: guerra, dolore, retorica, vendetta.
I personaggi rossiniani, travolti dalla logica del potere e dell’appartenenza, non riescono a sottrarsi alla spirale della violenza, proprio come le leadership attuali, intrappolate in narrative identitarie così granitiche da far impallidire il marmo di Carrara
E poi c’è il pubblico. Noi. Che, come in un’opera, applaudiamo la retorica dell’eroismo, ci commuoviamo per le arie più intense (o i video virali), ma non sappiamo mai cosa pensare del finale. Perché non c’è finale, solo repliche su repliche. L’opera continua, anche quando il sipario cala. Nel suo epilogo, Maometto II lascia solo macerie: Anna si suicida, il padre muore, Maometto conquista la città ma perde tutto il resto. E’ un finale che dovrebbe far riflettere. Non perché insegni qualcosa, dato che le opere non fanno la morale, ma perché ci mostra, con la chiarezza della musica, quanto può essere sterile la vittoria quando tutto il resto è andato perduto. Chissà se qualcuno, tra le cancellerie occidentali, i think tank con vista su Ramallah o i commentatori da salotto, si prenderà il tempo di ascoltarla. Magari scoprirebbe che Rossini ha ancora qualcosa da dire. Anche a chi crede che l’opera sia solo roba da boomer con l’abbonamento alla Scala.
Certo, Maometto II non è l’unico “Maometto” dell’immaginario europeo. Ce n’è uno più feroce, più retorico e decisamente meno cantabile: il Maometto di Voltaire, autore nel 1741 della pièce Mahomet ou le fanatisme, il cui sottotitolo già dice tutto. Qui il profeta è rappresentato come un manipolatore fanatico, un despota travestito da messaggero divino. Non esattamente l’immagine da catechismo. Voltaire scrive con l’intento di colpire non tanto l’islam, quanto il meccanismo del fanatismo religioso in sé, ovunque esso agisca. La sua è una critica alla teocrazia, all’autorità vestita di sacro, ai leader che usano Dio come alibi. Non è difficile vedere, in questa figura ambigua e pericolosa, l’ombra di molti attori del conflitto israelo-palestinese. Fanatismo laico, se vogliamo, ma con le stesse dinamiche: dogma, identità assoluta, verità rivelata (da un missile o da una conferenza stampa). Rossini, a differenza di Voltaire, non moralizza. Il suo Maometto è tragico, non diabolico. Ama davvero, soffre, è un personaggio shakespeariano dentro un’opera italiana (il che già è un piccolo miracolo). Ma il fanatismo è comunque presente, più nei meccanismi della storia che nei singoli personaggi. E’ il contesto che divora tutto, che impedisce l’amore, che trasforma le persone in ruoli. E qui le due visioni si toccano. Voltaire denuncia il fanatismo con la prosa dell’Illuminismo, Rossini lo mette in scena tra archi e oboi. Ma il messaggio, seppure trasmesso in lingue diverse, resta sorprendentemente simile: quando la fede diventa identità politica, quando il sacro diventa arma, la catastrofe è una certezza matematica. Con o senza orchestra.
Nel 2025 come nel 1820, le guerre non si fanno più con la spada ma con le narrative. E in questo senso, Voltaire e Rossini potrebbero offrirci una piccola lezione geopolitica.
Non sull’islam, né su Israele o Palestina, ma su noi stessi: quanto siamo ancora disposti a credere che la verità sia tutta da una parte sola? Quanto ci è comodo pensare che ci sia un “Maometto cattivo” e un “condottiero buono”? Tanto Voltaire quanto Rossini sembrano dirci che la tragedia non nasce solo dal fanatismo dell’altro, ma anche dalla nostra incapacità di leggerne la complessità. Il sultano di Rossini è un personaggio tragico perché non riesce a uscire dal suo ruolo, e anche perché gli altri non gli permettono di farlo. Vale lo stesso per qualunque leader intrappolato in un conflitto che dura da decenni, dove il dialogo è un’eresia e la pace una provocazione. Se Rossini ci ricorda, con la sua musica, l’umanità dietro il potere e il fanatismo, Voltaire ci insegna a guardare con sospetto ogni verità assoluta e ogni rifiuto dell’altro. Entrambi, attraverso linguaggi diversi, ci offrono strumenti preziosi per leggere e interpretare il presente, invitandoci a una maggiore consapevolezza. In un’epoca in cui il fanatismo politico si alimenta di semplificazioni, paure e polarizzazioni, recuperare questa doppia eredità può essere un modo per comprendere meglio le dinamiche in gioco e per costruire – almeno idealmente – un futuro meno dogmatico e più aperto al confronto.
Chiunque abbia preso in mano una banconota americana avrà notato la scritta che campeggia su di essa: “In God We Trust”. E’ il motto ufficiale degli Stati Uniti dal 1956, un chiaro richiamo alla fede religiosa, incastonato in un oggetto laico e commerciale come il denaro. Questa frase, semplice e apparentemente innocua, è in realtà un simbolo potente di un intreccio antico e problematico tra religione e politica, tra fede e potere. Nel contesto dell’America di oggi, e in particolare sotto l’Amministrazione Trump, questa dichiarazione assume un significato ben più denso e inquietante, che trova un sorprendente riscontro nelle analisi di Voltaire sul fanatismo. Analisi che non si limitano alle guerre di religione del passato, ma si ripresentano ogni volta che uno stato si arroga il diritto di fondare la propria identità sulla “vera” fede, creando un ambiente in cui la libertà di pensiero e la pluralità sono sospese. Il motto “In God We Trust”, che negli anni della Guerra fredda fu adottato proprio per contrapporsi all’ateismo sovietico, è il simbolo stesso di questa alleanza tra fede e nazionalismo. “In God We Trust” è diventato così un mantra che ha accompagnato politiche escludenti e narrative di conflitto, alimentando un fanatismo laico mascherato da religiosità patriottica.
L’idea che la nazione americana sia scelta da Dio, e che la fedeltà a un leader o a un’ideologia rappresenti una forma di devozione sacra, ha contribuito a polarizzare ulteriormente una società già divisa. Questa forma di fanatismo politico, così diversa dalla religiosità tradizionale ma altrettanto potente e coercitiva, ricalca le dinamiche criticate da Voltaire: la trasformazione della fede in un’arma per escludere, per legittimare violenze, per mettere a tacere il dissenso. L’idea che dietro una frase semplice come “In God We Trust” si nasconda una forma di fanatismo civico ha conseguenze profonde per la democrazia americana e, più in generale, per tutte le società che si trovano a dover gestire conflitti identitari. Nell’America di Trump, questa dinamica si è tradotta nella delegittimazione di qualunque critica, nella sospensione del confronto razionale, nella costruzione di una realtà parallela in cui “la fede” giustifica ogni azione e silenzia ogni opposizione. Il motto “In God We Trust” non è dunque solo un retaggio storico o una semplice frase simbolica. E’ un invito a riflettere su come la fede, in senso ampio, può essere tanto uno strumento di coesione quanto un fattore di divisione e conflitto. Voltaire ci insegna che riconoscere questa ambivalenza è il primo passo per opporsi al fanatismo, per difendere la libertà di pensiero e per preservare le fondamenta della democrazia.
L’idea che la nazione americana sia scelta da Dio, e che la fedeltà a un leader o a un’ideologia rappresenti una forma di devozione sacra, ha contribuito a polarizzare ulteriormente una società già divisa
In un mondo in cui le verità assolute sembrano tornare alla ribalta sotto nuove forme, comprendere il rapporto tra religione, politica e potere è più che mai necessario. E ricordare che, come l’opera di Rossini ci mostra, dietro ogni scontro ideologico ci sono uomini e donne, con passioni e fragilità, che meritano di essere ascoltati e compresi, non ridotti a pedine di una narrazione monolitica. Se negli Stati Uniti il motto “In God We Trust” incarna l’intreccio pericoloso tra fede e identità nazionale, dall’altra parte dell’Atlantico assistiamo a un fenomeno non meno significativo: la strumentalizzazione della religione come simbolo di appartenenza politica, spesso usata per consolidare un consenso basato su semplificazioni e divisioni. Un esempio emblematico è rappresentato da Matteo Salvini, il leader della Lega, che negli ultimi anni ha più volte fatto del rosario un elemento centrale dei suoi comizi e delle sue campagne politiche. Portare in pubblico il rosario, spesso agitandolo come un simbolo quasi taumaturgico, va oltre la semplice espressione di una fede personale: diventa un atto performativo, un segnale preciso rivolto a una parte dell’elettorato. Questa pratica richiama da vicino le dinamiche denunciate da Voltaire nel suo Mahomet ou le fanatisme. La religione non è più vissuta come esperienza interiore o scelta spirituale, ma come strumento di potere e identificazione politica. E’ un modo per marcare confini, per creare un “noi” esclusivo contro un “altro” da demonizzare. La miopia politica di questa strategia è evidente: affidare la propria legittimazione a simboli religiosi trasforma la politica in una sorta di guerra culturale permanente, in cui il dialogo è sostituito dalla polemica e la complessità dalla semplificazione. Come Voltaire ammonisce, il fanatismo non nasce solo dal sentimento religioso, ma dalla sua manipolazione in chiave ideologica, che impedisce ogni forma di critica e confronto.