Snaturamenti e abusi ci sono, ma meglio una sicurezza superflua di un improvvido ottimismo. Il disagio e l’irrinunciabile aura di gloria, le fughe in incognito e le sirene spiegate. Così vivono i minacciati illustri
Don Blasco, che aveva visto “i bei tempi” di casa Uzeda di Francalanza, si ricordava ancora di quando suo padre, il principe Giacomo XIII, poteva contare ben “venti cavalli in istalla”. Si valutava così, dallo sfoggio di carrozze e destrieri, l’importanza di una famiglia nella Sicilia crepuscolare raccontata ne I Viceré da Federico De Roberto. Forse ancora così si soppesa, centotrentun anni dopo l’uscita del romanzo, la rilevanza pubblica di un personaggio: basta sostituire alle carrozze le auto blindate e ai destrieri gli uomini di scorta. Servizio irrinunciabile, non soltanto in Sicilia, con cui lo stato tutela l’incolumità di chi è considerato a rischio, quello delle scorte si è pure prestato a inevitabili snaturamenti, a qualche abuso che solo di rado finisce sui giornali e a pilatesche concessioni ad abudantiam perché “non si sa mai”. Le minacce, per dirla aristotelicamente, hanno un quid di apofantico: possono sembrare inattendibili ma sono vere oppure il contrario. Nel dubbio però, come insegna l’esperienza del passato, è preferibile una sicurezza superflua all’improvvido ottimismo; meglio un onere in più per lo stato che una fatale sottovalutazione. Dal 2002, dopo l’assassinio terroristico del giuslavorista Marco Biagi, l’assegnazione delle scorte è stata delegata all’Ucis, l’Ufficio centrale interforze che fu istituito apposta dal governo Berlusconi per valutare le richieste e stabilire la gravità del pericolo cui soggiace una personalità. Si va dal quarto livello (rischio basso), che prevede un’auto non blindata con uno o due agenti, fino al primo (rischio elevato): due o tre vetture blindate con tre addetti per ciascuna. Considerando turni, ferie, giorni di riposo e malattie se ne deduce un totale di quasi trenta uomini impegnati nella protezione h24 di un potenziale obiettivo.
Non beneficiano di scorta, com’è ovvio che sia, soltanto le alte cariche dello stato, ma rappresentanti istituzionali, magistrati, giornalisti e criminali pentiti più una folta pattuglia di “ex”: è dei giorni scorsi la notizia, riportata dal Foglio, che dal primo gennaio 2026 il governo ritirerà gli uomini dei servizi segreti dalla tutela dei già presidenti del Consiglio, però tra i circa seicento scortati italiani perdurano altri “ex” di qualche cosa cui resta garantita protezione. Magari in forma declassata, non più di primo o di secondo livello, ma un’auto con l’agente ce l’hanno ancora, con discusse e sporadiche eccezioni come quella del “Capitano Ultimo” Sergio De Caprio, l’ex ufficiale dei carabinieri che nel 1993 arrestò Totò Riina. Per lui fu un togli e metti, la scorta gli veniva revocata e riassegnata finché dal 2018 ne è stato privato definitivamente, come di scorta è stato privo il generale Mario Mori, l’ex comandante dei Ros finito nel tritacarne del famoso processo sulla trattativa stato-mafia da cui è sortito assolto, e soprattutto ancora vivo per gustarsi l’estenuata vittoria. Come l’ex ministro Calogero Mannino, altro vegliardo che l’ha spuntata, perché per misterioso paradosso l’accanimento giudiziario e persino la galera in qualche caso trasformano il ferro in acciaio e allungano l’esistenza di Giobbe.
Non percepita soltanto quale misura di protezione, talvolta la scorta è patita con disagio dalla personalità protetta, che percepisce la propria condizione come “una cattività”: lo ha affermato di recente ma già lo aveva lamentato Roberto Saviano, sotto protezione dal 2006 per le minacce dei Casalesi dopo l’uscita del libro Gomorra. “Quasi vita, quasi morte” sarebbe la routine dello scortato secondo lo scrittore, che ammette di avere pagato il successo con pesanti conseguenze personali. Il drappello di carabinieri che ne assicura da quasi un ventennio l’incolumità assume i connotati di un’Aura Gloriae pesante quanto identificativa, un po’ come lo Khvarenah, l’alone consacrante che gli studiosi di zoroastrismo traducono nell’incandescenza divina che contrassegna la persona del suo portatore. Perdere lo Khvarenah da un lato renderebbe ordinaria la quotidianità di un personaggio, sobbarcandolo di oneri minuti eppur rimpianti, dall’ardua ricerca del parcheggio all’attesa speranzosa di un taxi; dall’altro tuttavia ne desacralizzerebbe le epifanie, con lo stesso effetto riduttivo che avrebbe sui credenti un improvviso ritorno alla raffigurazione aptera degli angeli, ossia senz’ali, come venivano dipinti nei primi tre secoli del cristianesimo.
Se qualcuno avanza il dubbio che, malgrado i disagi denunciati, gli aspiranti apteri non siano moltissimi (la rinuncia alla scorta soggiace, cristianamente, al libero arbitrio dello scortato), v’è anche la possibilità che il soggetto tutelato si ritagli di tanto in tanto qualche furtivo spazio di privacy. A proprio rischio, è vero, ma per quanto sia banale notarlo dà molto più nell’occhio una teoria di vetture blindate che un motociclista di cui non s’intravedono le fattezze sotto il casco integrale mentre si gode un giro solitario come un quisque de populo: assaporava così quel po’ di libertà Giuseppe Ayala, che fu pm nel maxiprocesso di Palermo. Tentò di assaporarla alla stessa maniera, perché – scorta o non scorta – l’uomo è di carne anche se siede all’Eliseo, il presidente francese François Hollande raggiungendo su uno scooter la casa dell’amante clandestina, l’attrice Julie Gayet, dopo essere sgattaiolato quatto quatto dal Palais. Alla fine i reporter lo beccarono e sull’amour secret du Président scoppiò uno scandalo non dimenticato, grazie al quale il vecchio Piaggio Mp3 delle sue scappatelle è stato battuto all’asta per più di venticinquemila euro giusto un anno fa. L’uomo è di carne con o senza autoblu, come constatò a sue spese il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, che non adottò la soluzione Hollande per le proprie distrazioni ma ci si fece accompagnare; l’uomo è di carne, come toccò considerare agli uomini di scorta di un celeberrimo pentito di Cosa nostra, il quale aveva precisato ai magistrati che senza visite periodiche alle professioniste dell’amore gli si sarebbe arrugginita anche la lingua. E continuò felicemente a parlare.
Ormai solo i non più giovanissimi possono ricordare in prima persona la cruenta stagione degli attentati mafiosi del ‘92/93. Lo stato versò sangue però vinse e gli esponenti di quella criminalità o sono morti o sono vecchi sparuti, murati al 41-bis come Leoluca Bagarella (non è il caso di Giovanni Brusca, che grazie al pentimento è tornato libero – e sotto scorta). Restano i misteri e le polemiche che si rinnovano a ogni commemorazione, nonché testimonianze residuali dell’epoca che fu: come il servizio di tutela riconosciuto ancora all’avvocato Alfredo Galasso, difensore di parte civile nel maxiprocesso di Palermo; o all’ex sindaco Leoluca Orlando, anche se le foto di copertina che lo ritraevano con il giubbotto antiproiettile attorniato dagli uomini coi mitra spianati sono, fortunatamente, sbiadita memoria di un’infausta storia. Ma la protezione è stata assegnata anche a chi è divenuto depositario successivo di quelle memorie come Maria Falcone, sorella del giudice massacrato a Capaci con Francesca Morvillo e la scorta il 23 maggio 1992. Cosa nostra è ridotta a un rimasuglio però i rischi sono sempre imprevedibili, sicché vive sotto massima protezione dal ‘93 il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, titolare di numerosi procedimenti giudiziari (e di ventiquattro cittadinanze onorarie). Con cospicuo dispiegamento di sirene che annuncia ogni mattina, al vicinato, la sua uscita di casa.
Certo che non è facile la vita degli scortati. Eppure, a farci l’abitudine, il felice o infelice protetto si rivela restio al cambiamento salvo rare eccezioni. Quando fu revocata la scorta all’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, prima sceso in politica poi datosi all’avvocatura, per riaverla ricorse alla giustizia amministrativa e riottenne la tutela, benché impegnato su fronti meno rischiosi come la cura degli interessi legali di Gina Lollobrigida.
Ma non tutto si può ridurre ai freddi calcoli del rischio e a esigenze di sicurezza. C’è da osservare che tra scortanti e scortati può instaurarsi pure uno schietto rapporto di dimestichezza, per cui anche i primi vengono illuminati di riflesso – in Aura Gloriae – desiderando proseguire nel servizio. Se poi il tutelato si sposta di frequente, altrettanti sono i fogli missione compilati specie quando (com’è accaduto al procuratore capo della Repubblica di Roma, Francesco Lo Voi) alla personalità sono negati i voli di stato ed è costretta a viaggiare sugli aerei di linea come un qualunque passeggero, ma con due agenti a protezione.
Nei casi migliori, nei tempi lunghi delle tediose attese, tanti scortanti hanno potuto elevare il proprio livello di istruzione con full immersion nei corsi delle università telematiche. Non a caso è un carabiniere in pensione, il professor Calogero Di Carlo, ad avere intuito le potenzialità degli atenei online diventando responsabile nazionale delle sedi d’esame della Pegaso. Nei casi peggiori qualcuno dovrà portare a scuola il rampollo della personalità protetta, costretto magari alla baruffa con i vigili urbani che si sono incaponiti a multarlo perché percorre un tratto pedonalizzato: accadde per il figlio di un ex presidente della Repubblica, che al mattino attraversava abitualmente con l’auto di scorta tutta via Condotti a Roma accompagnando il bambino. Qualcuno, ancora, avrà dovuto riempire alla vigilia di ogni vacanza estiva il Fiat Ducato provveduto in aggiunta per trasferire le masserizie del protetto in villeggiatura al mare con famiglia. L’estate è paventata come la stagione più crudele soprattutto da chi è assegnato a protezione delle eminenti personalità che vanno a refrigerarsi nei circoli di Mondello, mentre l’implacabile calura siciliana incrudelisce sulle madide sentinelle e avvampa i vetri fumé delle blindate.
Più spesso però tra scortanti e scortati si sviluppa un rapporto fiduciario e felice: a fine 2016 lo staff di Paolo Gentiloni appena diventato presidente del Consiglio suggerì per la scorta un tale agente dell’Aisi, il quale a sua volta caldeggiò un paio di colleghi; i tre rimasero in servizio a Palazzo Chigi anche con i premierati di Giuseppe Conte, finché all’epoca di Mario Draghi vennero tutti rimandati all’Agenzia informazioni e sicurezza interna né furono rimpiazzati con personale della polizia di stato, perché il premier pro tempore era rimasto soddisfatto del risparmio. Qualche volta, come accade in tanti ambienti di lavoro, possono affiorare disaccordi tra colleghi che si rivelano insanabili: successe nella scorta di Mario Monti, quando le divergenze indussero a richiamare all’Aisi il caposcorta e il suo vice.
C’è scorta e scorta, come c’è rischio e rischio. Concreto, eventuale, aleatorio o divenuto tale col passaggio del tempo, che nei decenni divora anche i cattivi. Agli osservatori profani risulta che più sono tenui le minacce più la scorta la gestisce lo scortato. Non è propriamente la condizione di un “ostaggio” anche se le esigenze personali vanne conciliate con le cautele imposte, a meno di sottrarvisi di tanto in tanto in stile Hollande (vai a saperlo) o rinunciarvi proprio come fece, per esempio, Enrico Letta dopo aver lasciato la presidenza del Consiglio. In teoria, liberarsi della scorta è il desiderio vagheggiato da tutti quelli che ce l’hanno, anche se riprendere la condizione di angelo senz’ali – con i corrivi e obliati grattacapi di chi conduce un’esistenza comune – suscita un pizzico di inconfessata apprensione. Perché a tutto ci si abitua. L’epica dei lampeggianti che saettano nel traffico delle città, il riverbero del blu persino se affiochito nel modesto quarto livello di una vettura sola senza blindatura, rende ogni don Blasco memore di quando fu egli stesso il Giacomo XIII con “venti cavalli in istalla”.
Sic transit scorta mundi? Non siatene così sicuri.