“Quanto sta Sinner?”. Storia di un percorso, e di una svolta al bar

Sinner non ha resisto ad Alcaraz, la sconfitta dopo cinque ore brucia, ma la giornata di ieri segna un capovolgimento che ha reso i nuovi eroi del tennis italiano gli eredi di una cultura di massa che passa da Coppi a Pantani, da Thoeni a Mennea

Comunque sarebbe andata, sarebbe stata un successo, avrebbe detto Piero Chiambretti. Certo, così fa male, quei tre match point, la nemesi del Djokovic furioso che li sprecò in quel memorabile match di Davis, risiederà per un po’ in un angolino del cuore di Sinner, ma per il popolo degli aficionados la sconfitta di ieri sarà solo un incidente di percorso, anzi lo rende più umano, e non cambierà né l’affetto né la dimensione nazional-popolare del ragazzo.

Jannik lo conoscete tutti, ormai. Ma invece, sapreste riconoscere il centravanti della Nazionale?”. Quando ancora Sinner non aveva terremotato il tennis mondiale, ma prometteva molto bene, Angelo Binaghi rispondeva così, con una delle sue proverbiali provocazioni, a chi mostrava scetticismo dinanzi a una di quelle sentenze perentorie che tanto piacciono al presidente della Fitp: “Il tennis di oggi è il calcio di un tempo. Se non lo avete ancora capito, il calcio siamo noi. E ricordate, presto lo supereremo”.

E giù la solita stordente sequenza di slide con numeri di tesserati (puntualmente gonfiati dai bambini di Racchette in classe) e ricavi sempre crescenti e linee di grafici sempre tendenti verso l’iperuranio, al di là di ogni sfera celeste, un tempo sede delle idee platoniche, oggi casa dei dogmi di Binaghi, un totalitarismo in salsa tennistica che prevede un pensiero unico (il suo), non ama i confronti e non tollera oppositori (che si chiamino Panatta, recentemente perdonato, Barazzutti, ancora nel libro nero come Bertolucci, Sky, Rai, ATP, chiunque non gli consenta di trasmettere il tennis in chiaro, preferibilmente sulla sua tv o al limite su Raiuno, e ovviamente Giovanni Malagò, che nel cerchio magico dell’ingegnere sardo è definito con malcelato disprezzo il “biondo”).

Binaghi sarà quel che sarà, ma – va detto – sulla crescita del tennis e la rincorsa al calcio aveva ragione lui. Anzi, la brutalità con cui Sinner si è preso tutto, o quasi: avversari, salvo l’Alcaraz che con l’epica, clamorosa, indimenticabile maratona di ieri ora conduce 9-4, trofei, punti, la rapidità con cui è salito in vetta, più o meno la stessa a cui Yates ha scalato il Colle delle Finestre andandosi a prendere l’ultimo Giro, gli consentiranno di vedere realizzata la profezia più amata – “Presto supereremo il numero di tesserati del calcio e saremo in tutto e per tutto lo sport italiano più vincente e praticato” – prima di ogni più ottimistica previsione. E sarà un’impresa nemmeno immaginabile fino a un paio di anni fa, ma già ora si può dire che le imprese di Sinner, e in qualche modo anche quel suo non essere personaggio, tutto casa (un po’ la stube in Val Pusteria, un po’ l’aria frizzantina di Montecarlo) e lavoro (tanto, tanto lavoro), quell’aria da bravo ragazzo che conquista sempre le mamme e le nonne, e insomma la bravura e lo stile del roscio – anche quando perde – hanno reso il tennis lo sport più popolare in un Paese a vocazione calcistica e dalla scarsa cultura sportiva, che non si era concesso adulteri tanto seri nemmeno con gli eroi del ciclismo, da Coppi a Pantani, dello sci, da Thoeni a Tomba, dei motori, da Nuvolari a Schumacher a Valentino Rossi, o dell’atletica, da Berruti a Mennea a Jacobs.


Al cospetto delle odierne imprese di Sinner, e degli altri cavalieri azzurri che tentano faticosamente, a parte Lorenzo Musetti finalmente Magnifico, di stargli dietro, ulteriormente impallidiscono – per restare nel court – i gesti bianchi tanto cari al maestro Clerici, e anche le avventure di Panatta and co, nei meravigliosi Settanta, che avviarono una generazione alla terra rossa del Parioli, ma al Trullo, a San Basilio, o ad Acilia, con tutto il rispetto, non osarono entrare. Oggi, invece, in qualunque bar della Nazione (per dirla con Meloni, che di Sinner è fan affettuosa ma rivale feroce al burraco) entriate, sentirete qualcuno al bancone, in attesa del caffè, discettare di rovesci, prime palle, volée e lungolinea (senza capirne in realtà granché, ma, si sa, noi italiani siamo un popolo di santi, poeti, navigatori, allenatori, tennisti, piloti, sciatori, ogni tanto anche velisti). Per dire, ieri, durante la classica domenica di fine stagione, raccolte numerose testimonianze di padri incollati allo smartphone, durante saggi di danza, pianoforte, o in attesa di cene di classe, con mogli nemmeno troppo urtate, perché anche loro non disdegnano di buttare un occhio, o chiedere: “quanto sta Sinner?”.


E invece, “quanto sta la Nazionale?”, se lo chiedono sempre meno persone (le audience tv colate a picco lo dimostrano). E chi lo fa, è mosso da quel compiacimento tutto italiano che mostriamo quando commentiamo le nostre disgrazie. “Perde, eh, lo sapevo”. Già, lo sapevamo tutti che l’Italia avrebbe perso con la Norvegia (magari non in quel modo, eh), anche se alla vigilia facevamo fatica a indicare chi sarebbe sceso in campo, un po’ perché molti erano infortunati, un po’ perché, a parte Donnarumma, non abbiamo più campioni o grandi personaggi da offrire al sentimento popolare. E in un calcio senza eroi, i bambini italiani non si ritrovano più. E si buttano su Jannik.

“Quanto sta Sinner?”. Ieri ha perso, ma tanto vince a Wimbledon.

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