Questo Papa non è pop

Leone XIV s’infiamma quando parla di Cristo e di sant’Agostino, di amore e di unità. Ha ben poco della soverchiante presenza mediatica di Francesco. E forse è un bene

“Ho dovuto rinunciare a molte cose, ma non rinuncio a essere agostiniano”. (Leone XIV)

Timido e riservato, viene descritto Robert Francis Prevost da chi l’ha conosciuto. Uomo del dialogo e del compromesso (in senso buono), privo di spigolature caratteriali che – a volte – possono portare a incomprensioni e causare danni poi non facilmente rimediabili, soprattutto per chi ha autorità di governo. Di lui, prima dell’elezione, si sapeva pochissimo. Aveva un ruolo apicale in curia, era il prefetto del dicastero per i vescovi, ma s’ignoravano testi e libri e documenti particolari recanti in calce la sua firma. Interviste, pochissime. Qualcuno, scartabellando fra archivi e cronologie web, ha trovato un suo intervento al Sinodo sulla nuova evangelizzazione: anno 2012. Una vita fa. Un profilo su X aggiornato saltuariamente. E perfino i suoi confratelli cardinali, quelli che poi l’avrebbero eletto Papa, dicevano di non conoscerlo bene. Semmai, per sentito dire: sì, è in continuità con Francesco, è stato vent’anni in Perù, da poco è in curia dove – come si suol dire quando si vuole parlare bene di un funzionario, a maggior ragione se poi divenuto Papa – “studia in modo approfondito ogni dossier che finisce sul suo tavolo”. Fine.

Il suo nome nelle congregazioni generali del pre Conclave girava, ma insieme ad altri venticinque, forse ventisei papabili. Forse più oltreoceano che a Roma, dove si continua da sessant’anni a trattare il Conclave alla stregua di una partita fra italiani, come se al cardinale della Polinesia interessasse che il futuro Papa sia nostro connazionale o meno. Poi, in ventiquattr’ore, i 133 cardinali illuminati dallo Spirito Santo hanno scritto – non tutti, naturalmente – il suo nome sulla piccola scheda elettorale. E lui è uscito alla Loggia delle benedizioni, vestito da Papa e commosso. Niente buonasera, ma “la pace sia con voi”, e cioè “il primo saluto del Cristo risorto”, il che era già la manifestazione di uno stile diverso da quel che c’era prima. Il giorno successivo, nella prima messa in Cappella Sistina con i cardinali, ha parlato di Pietro e di autorità, fino a sottolineare l’impegno categorico che vale anche (e soprattutto) per chi ha posti di responsabilità nella Chiesa: sparire perché Cristo rimanga. Alle Chiese orientali avrebbe detto che l’occidente cristiano ha bisogno di riscoprire il mistero, la liturgia, “il senso del primato di Dio”, “l’intercessione incessante”, la penitenza e il digiuno, “il pianto per i peccati propri e dell’intera umanità”, tirando fuori dagli archivi perfino “il valore della mistagogia”, cioè la consapevolezza di quel che significano davvero i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Quasi un disperato quaerere Deum di ratzingeriana memoria per un’Europa dimentica di Dio.

L’omelia di inizio pontificato, ancora, parlava di amore e unità: “Con la luce e la forza dello Spirito Santo, costruiamo una Chiesa fondata sull’amore di Dio e segno di unità, una Chiesa missionaria, che apre le braccia al mondo, che annuncia la Parola, che si lascia inquietare dalla storia, e che diventa lievito di concordia per l’umanità”. Un Papa agostiniano che del santo di Ippona è imbevuto, lo adora e lo cita in ogni discorso, in ogni omelia, alla stregua di un riferimento basilare e per lui centrale. Il Papa teologo, con quel nome che ha mandato in visibilio gli americani saturi delle Cronache di Narnia di C. S. Lewis, che va a San Paolo fuori le Mura e cita uno dopo l’altro san Benedetto e “un altro Benedetto, Papa Benedetto XVI” che ai giovani radunati a Madrid nel 2011 diceva: “Dio ci ama. Questa è la grande verità della nostra vita e che dà senso a tutto il resto. All’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio”. Con chiosa leonina sul fatto che “è qui la radice, semplice e unica, di ogni missione, anche della mia, come successore di Pietro ed erede dello zelo apostolico di Paolo”.

Prevost non ama i selfie, alla sua prima udienza con i giornalisti non vedeva l’ora di farla finita, di scappare dal carnaio di bandiere variopinte, dalla sequela di smartphone a immortalarlo, baciamano insalivati di frati che temono l’oblio dopo il cambio di pontificato, sciarpe e foulard e gingilli vari. Lui abbozzava un sorriso, una stretta di mano e via, avanti il prossimo. Non è un Papa pop, lo yankee peruviano: le folle lo intimidiscono, almeno per il momento. Si commuove quando gli mettono l’anello del Pescatore al dito e quando benedicente s’avvia verso il sepolcro paolino. Non è uomo da interviste interminabili a bordo aereo o in televisione né da conversazioni pomeridiane su Inferni inesistenti, cardinali da bastonare e storicità di Cristo. E non pare neppure il tipo da firmare sei-sette prefazioni a volumi sui più svariati temi dello scibile umano né da autorizzare – da vivo – un numero imprecisato di autobiografie. Alla privacy, questo vescovo di Roma, pare tenerci parecchio. “Sparire perché rimanga Cristo”, appunto.

Non è in discussione la continuità con Francesco, Leone dopotutto ha già più volte rimarcato una linea comune con l’immediato predecessore sui cardini del pontificato bergogliano: si pensi solo al richiamo alla sinodalità durante la prima apparizione pubblica sulla Loggia (si vedrà poi come si svilupperà la sua sinodalità) o all’enciclica Fratelli tutti e al documento sulla fratellanza universale firmato ad Abu Dhabi. Non poteva essere altrimenti: il Collegio che l’ha eletto è stato ridisegnato con cura certosina da Francesco, gli oppositori più tenaci erano ridotti a un drappello coeso ma fortemente minoritario e c’era una chiara sintonia sulla volontà di proseguire lungo la rotta tracciata negli ultimi dodici anni. C’è modo e modo di farlo, però.


Prevost, vuoi per carattere o per senso dell’Istituzione, appare lontano dalla soverchiante presenza – anche mediatica – di Francesco. Quella che gli ha fatto guadagnare molti punti e un grande affetto tra i fedeli contenti di avere un Papa-come-noi, “semplice e umile”, che ha mandato in visibilio i circoli frequentati da quelli che “non credo ma lui mi piace” e che ha posto la Santa Sede al centro dei grandi crocevia diplomatici e geopolitici. Con acclarati successi (la mediazione fra gli Stati Uniti e Cuba) e altrettanto evidenti problemi (la vicenda russo-ucraina, su tutti). Leone offre meno titoli, meno “notizie”, niente “chi sono io per giudicare”, figuriamoci frasi del tipo “se qualcuno insulta la mia mamma gli aspetta un pugno”, come disse ad alta quota dopo la strage islamista nella redazione parigina di Charlie Hebdo. Lo si vede già: della messa d’inizio pontificato, il discorso omiletico sull’unità e sull’amore è stato ridotto a incisi, a corredo di una giornata in cui il succo passato al setaccio di giornali e tv è stato “A Gaza si muore di fame”, detto peraltro a messa conclusa. Lo stesso per la prima udienza generale davanti a quarantamila fedeli radunati sul sagrato petrino: ha parlato di parabole e del “Seminatore al tramonto” di Van Gogh, ma la riduzione mediatica è stata ancora sulle guerre e Gaza.

Francesco, da magnifico catechista qual è stato, sapeva distillare concetti impegnativi in frasi a effetto, che colpivano anche chi non ha familiarità con il katechon. Leone XIV parla altrettanto chiaro, ma anziché la cara nonna bairense cita sant’Isacco di Ninive: non è per tutti. Nella trasformazione contemporanea che si vorrebbe del Papa a icona pop, concetti come “la riduzione di Gesù a una specie di leader carismatico o di superuomo” faticano a destare l’interesse di chi della Laudato Si’ ha salvato solo le esortazioni alla raccolta differenziata dei rifiuti, idealizzando Francesco alla stregua d’una versione cattolica di Greta Thunberg. Figuriamoci quando Leone parla di “ateismo di fatto” e va sul piano della trascendenza: semplicemente, non rileva. Di tutto quanto ha detto in dieci giorni di pontificato, quel che resta su giornali e nel dibattito rumoroso è la disponibilità a mediare fra Mosca e Kyiv, il chiacchiericcio sui rapporti con Donald Trump, la storia del fratello orgogliosamente discepolo della scuola Maga, l’interrogativo se fosse realmente iscritto alle liste dei Repubblicani. Che sia il Vicario di Cristo in Terra, risulta trascurabile. Anche Francesco, ovviamente – è utile specificarlo – non trascurava quel canovaccio: solo che poi la narrazione selezionava accuratamente cosa diffondere al mondo e cosa invece relegarlo a battute da archiviarsi rapidamente. Si pensi a certe sue frasi sul gender come “espressione di una frustrazione” o “sbaglio della mente umana”, che venivano coperte da un prudente e fors’anche imbarazzato silenzio. Gli si perdonavano le sbandate orbaniane, come quando a Budapest elogiò il modello ungherese e si scagliò contro le tecnocrazie brussellesi. Ormai di lui era stato fatto il santino del rivoluzionario, dell’antidottrinario che ribaltava la Chiesa al grido di “todos, todos, todos”. Che poi su aborto, eutanasia e cultura dello scarto fosse durissimo come ben pochi prima di lui, figlio di una profonda cultura cattolica popolare, semplicemente non rilevava.


Leone XIV, invece, è atteso al varco con non poca diffidenza. Intanto, è americano e già questo più d’un sopracciglio lo fa alzare. I cardinali non hanno più il pregiudizio sugli Stati Uniti, ma il resto del mondo sì. E poi è così taciturno. Non si sa cosa pensi davvero, appare così poco empatico. Ha scritto su Commonweal Terence Sweeney, docente alla Villanova University, che “gli agostiniani sono modellati da questa interiorità, dalle loro origini come eremiti chiamati alla comunità. E così le costituzioni dell’Ordine di Agostino affermano: ‘Torniamo sempre a noi stessi, ed entrando dentro, lavoriamo diligentemente per perfezionare il nostro cuore’. Ma affermano anche che ‘la comunità è l’asse attorno al quale ruota la vita religiosa agostiniana’. Radicato in una ricca vita interiore, il frate agostiniano è chiamato a una ‘comunione di vita’. Il suo cuore irrequieto desidera sempre stare con Dio e il prossimo. Questa combinazione di interiorità e comunità non è solo per il bene dell’ordine. E’ anche un mezzo di evangelizzazione e un atteggiamento verso il mondo in generale. Lumen gentium insegna che la Chiesa è un ‘segno e strumento sia di un’unione molto stretta con Dio che dell’unità di tutta la razza umana’. Allo stesso modo, la costituzione dell’ordine dice che ‘la comunità agostiniana è chiamata a essere un segno profetico nel mondo nella misura in cui la vita fraterna diventa una fonte di condivisione e una causa di speranza’. Rivolgendosi verso l’interno per trovare Dio, il frate va verso l’esterno per stare con i suoi fratelli e per essere sia un testimone per il mondo che un servitore della Chiesa universale”.

Forse è qui la chiave per capire Leone, il suo stile e il suo modo di vedere la Chiesa e il mondo. Interiorità e comunità. “Ho dovuto rinunciare a molte cose, ma non rinuncio a essere agostiniano”, appunto, secondo quanto ha confidato appena eletto a padre Alejandro Moral Antón, priore generale dell’Ordine. “Forse – ha detto quest’ultimo in un’intervista all’agenzia Sir pubblicata nei giorni scorsi – perché è stato priore generale, ma si vede che porta dentro di sé questo senso di appartenenza”. Nelle congregazioni del pre Conclave, al di là dei discorsi su pace e migranti, ambiente e missione, era emersa forte questa richiesta di calma. Dopo il ciclone Francesco e la scossa che aveva dato alla Chiesa, mettendo la Barca in acqua senza rotte predeterminate, i cardinali erano concordi sulla necessità di dotarla di una bussola e di strumenti per rendere la traversata più agevole e meno tormentata. L’agostiniano prudente è la naturale, quanto imprevedibile, soluzione a tale auspicio.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.

Leave a comment

Your email address will not be published.