Una nonna, una madre e una figlia: figure solo apparentemente confinate in tre ruoli generazionali definiti, rivelando possibilità inedite a loro stesse pagina dopo pagina. In un ballo dentro al quale tutto si muove e si agita armoniosamente
Nel solco di quel lessico che fece di Natalia Ginzburg una pioniera dell’intelligenza femminile – come la definì Cesare Garboli -, Concita De Gregorio affronta nel suo romanzo, Di madre in figlia (Feltrinelli) il femminile attraverso le figure di tre donne: una nonna, una madre e una figlia. Tre donne solo apparentemente confinate in tre ruoli generazionali definiti, che invece pagina dopo pagina rivelano possibilità inedite a loro stesse. Questa libertà del sensibile rappresenta l’ossatura di una scrittura che diviene anche fortemente ossessiva. Una scrittura che mai pretende di dichiarare, ma che si occupa d’indagare e rivelare. Nel movimento Concita De Gregorio si mostra cronista pura, una scrittrice consapevole del proprio sguardo, e della propria curiosità. Non ha bisogno infatti di ridefinirsi (rinchiudendosi) in una forma letteraria precostituita, sa perfettamente che deve solo liberare il proprio sguardo prendendosi cura delle sue tre protagoniste. Lo fa con l’acutezza di chi coglie abitualmente nella realtà le contraddizioni e i conflitti che determinano gli eventi. Di madre in figlia ha gli elementi del racconto epico, i tratti di una mitologia però immersa nella leggerezza dell’estate.
La memoria si mischia con l’attesa mentre attorno la brezza accompagna fino a notte, là dove la rivelazione può facilmente incontrare l’alba. Marilù vive isolata su un’isola, Adelaide sua nipote che ama però farsi chiamare Adé la raggiunge quasi controvoglia, ma con infinita curiosità. Mentre Angela, sua madre, ha bisogno di tempo e di spazio e di una nuova possibilità di capire e di conoscere. E’ una coreografia quella che mette in scena Concita De Gregorio, un ballo dentro al quale tutto si muove e si agita armoniosamente, ma anche un movimento che all’improvviso sfugge fino ad agitarsi all’impazzata, perché al tempo che passa, così come a quello che viene, è difficile comandare. Serve misura ed esperienza, serve la capacità di farsi vedere e di vedere: “Mia nonna la dà a bere a tutti. Li incanta, è come un maleficio. Lo fa con la bellezza, è il suo potere. Sembra un angelo: un’apparizione, una visione, una creatura di un altro mondo con quella risata di musica, con quella pelle di cera, quelle gambe sottili che puoi vedere le vene delle caviglie, quei polsi minuscoli. La adorano, le sono devoti anche perché ne hanno paura, credo”.
Adelaide osserva la nonna, la analizza come una statua sacra. Il potere e la bellezza, si tratta di elementi vividi di una lotta tutta interna al mondo femminile capace di annichilire come di far risplendere. Ed è in quella forma di cura e costanza, di pazienza seminatrice che le tre donne, non impedendosi alcun possibile conflitto, riescono a rigenerarsi, superando ogni confine generazionale. Non si tratta infatti di solo tre generazioni di donne, quello è il punto di partenza temporale dentro al quale le tre donne s’immergono fino a uscirne rigenerate. Colte nelle loro irriducibili differenze, tutte e tre si dimostrano capaci di un ascolto che riduce l’età, il tempo e la storia a una mera condizione di ruolo che poco dice di una femminilità capace sempre di ostinata differenza, fino al punto di far mutare e spesso ridicolizzare le immobili categorie imposte dalla storia, e ancor più dal maschile.
Di madre in figlia è un romanzo breve, a tratti rapidissimo nel susseguirsi delle voci delle tre donne che compongono i capitoli come elementi solo apparentemente disuniti di un unico discorso. Un romanzo capace di raccontare con la tenerezza e con la fatica della tenerezza quel segreto che è proprio delle streghe. Che ha la forma della torta della nonna. Un gusto riconoscibilissimo che contiene magicamente il sapore e la voce di tutte e tre: la voce e il segreto della luna.