Il ricordo di quanto accaduto un anno fa ha abbandonato la corsa rosa. Merito dei corridori e delle scelte di Vegni che ha avuto il coraggio di evadere dalla dittatura degli arrivi in salita
Alla partenza di Durazzo, e poi lungo tutto il percorso prima albanese e poi italiano, c’era un’ombra che gravitava sul Giro d’Italia 2025. Capace di sfocarne i contorni e, chissà per quale scherzo prospettico, diminuirne le dimensioni. Quell’ombra era filiforme e con qualche ciuffetto di capelli cenere che spuntavano dal caschetto.
Tadej Pogacar non è in gruppo al Giro d’Italia, si allena altrove con in testa l’ambizione di vincere un altro Tour de France. Il suo successo è vecchio di un anno, a inizio giugno non sarà più il suo nome l’ultimo inciso sul Trofeo Senza fine.
Eppure Tadej Pogacar è come se fosse stato in gruppo a lungo in questo Giro d’Italia. Soprattutto i primi giorni albanesi, quando venivano spacciate salitelle per salitone e tra le parole di inviati e appassionati si sentiva, in sottofondo, un “ah se ci fosse stato Pogacar”, che sembrava un’inconsapevole riedizione, un filo grottesca, del film di Alfred Hitchcock “Rebecca – La prima moglie”.
A sentir i più, il Giro sembrava mediocre, i corridori in corsa dei cagasotto incapaci di avere un minimo di inventiva. Non era così. Non potevano fare di più i corridori in corsa. Giulio Ciccone aveva imposto un ritmo folle sulla strada in salita che portava a Surrel, l’ultima della prima tappa, che pure Tadej Pogacar ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare. La terza tappa invece era scialba di suo, difficile inventarsi qualcosa.
Poi la carovana è tornata in Italia, ha sprintato a Lecce, ha incontrato gli Appennini. E il vento di maggio sulla penisola ha iniziato a rendere quell’ombra meno presente, a diradarla sino a farla scomparire.
Le salite preappenniniche e appenniniche, gli sterrati senesi, l’avanzata montana verso Castelnovo ne’ Monti hanno riportato il Giro d’Italia in un qui e ora. Ripensare a quel che è stato e, soprattutto, a quello che poteva essere, ha perso di senso. Perché in fondo il romanzo della corsa rosa è ben scritto, ha personaggi interessanti e pieni di voglia di vincere. E questo nonostante l’attesa per quello che sarà, ossia un gran finale pieno zeppo di montagne.
Così a quell’ombra filiforme con qualche ciuffetto di capelli cenere che spuntavano dal caschetto nessuno ha più pensato.
Merito di un manipolo di corridori che ha deciso che l’ipotesi di attendere le Alpi sia soltanto il preambolo del rimpianto. E quindi (quasi) ogni giorno cercano di inventarsi qualcosa. Che sia la soddisfazione di una vittoria di tappa oppure mettere in difficoltà gli avversari.
Merito anche della scelta fatta da Mauro Vegni, il direttore del Giro d’Italia, di disegnare un percorso che guarda al futuro, ma con chiaro in mente cosa è stato il passato.
Va dato atto a Mauro Vegni di aver avuto il coraggio di evadere dalla dittatura dell’arrivo in salita, di essere riuscito a riportare in corsa anche il versante troppo volte dimenticato delle montagne: la discesa. Di aver scelto, quanto meno nel disegno delle tappe, di inserire salite difficili lontane dal traguardo, lasciando nei chilometri finali ascese più semplici, quelle capaci di non discriminare nessun corridore. A patto, ovviamente, di avere gambe e coraggio per cercare l’evasione dal gruppo.
Il disegno del Giro d’Italia 2025 era un sussurro attacca! diretto alle orecchie di chi era capace di coglierlo. Non si sono tirati indietro i corridori. Almeno quando quel sussurro attacca! era effettivamente invitante.
Domenica 25 maggio, il Monte Grappa farà da confine tra quello che è stato e quel che sarà, tra ciò che è stato scritto nelle prime due settimane di corsa e quello che il Giro d’Italia avrà ancora da dire. È montagna magnifica il Monte Grappa, dolorosa per guerre passate e vogliosa di battaglie a pedali. Una lunga strada che punta alle nuvole, capace di stuzzicare sogni arditi. Sarà lì che si inizierà a capire se queste giornate di ciclismo rosa sono state un abbaglio di maggio oppure solo l’antipasto di una nuova grande epopea montanara.
Isaac Del Toro è pronto a dimostrare di non essere soltanto una storiella passeggera. Nelle sue gambe sottili e nel suo viso affilato c’è la voglia di stupirsi e stupire ancora, di essere un corridore per il quale vale la pena uscire di casa, farsi centinaia di chilometri, trovare un pezzo di banchina libera e aspettare per ore il passaggio dei corridori.
Dal compagno di squadra Juan Ayuso a Primoz Roglic, passando per Richard Carapaz, Giulio Ciccone, Antonio Tiberi ed Egan Bernal, sono in tanti quelli che vogliono prendere il suo posto, essere l’uomo da inseguire in classifica generale.