Non l’Intellettuale, ma il Maestro potrebbe essere il vero oppositore dell’AI

Carl Schmitt e le macchine che non decidono. “L’Intellettuale è portatore di pensiero critico, relativamente lento, che ri-pensa il già pensato. Mentre il Maestro educa con pazienza alla libertà dello spirito”, dice il professore Carlo Galli

Carlo Galli è stato professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna ed è, tra le altre cose, il più importante studioso italiano di Carl Schmitt. Vista la centralità dei concetti di decisione, libertà e volontà, e quindi di politica, nella riflessione sull’intelligenza artificiale, ci è sembrato inevitabile interrogarlo. Professor Galli, iniziamo queste piccole conversazioni filosofiche attorno all’intelligenza artificiale partendo da una domanda fondamentale: è possibile stabilire una distinzione tra intelligenza, intesa come ratio calcolante, e pensiero, inteso come atto creativo per eccellenza e originario dell’attività umana? “Non solo è possibile, ma necessario. La nostra stessa esperienza ci dice che l’elemento del calcolo e della ripetizione formulare-mnemonica, dell’assemblaggio statistico, è solo una parte della nostra attività intellettuale. Nello specifico, a quell’elemento, pur importante, mancano l’inizio e il fine, che sono presenti nel pensiero umano: l’inizio è l’interesse, la curiosità, il desiderio di procedere in una direzione piuttosto che in un’altra; il fine è ‘andare oltre’ l’immane raccolta di dati e di regole sintattiche a cui può accedere l’intelligenza artificiale. Ovvero, criticare, non accettare, retrocedere all’origine dei dati, comprendere come si sono formati, capire che quei ‘dati’ in realtà non sono ‘oggettivi’ ma che hanno una storia, una genealogia, che sono il prodotto di rapporti politici, economici, sociali, di decisioni e di contraddizioni. Il pensiero è questa comprensione, finalizzata a una re-interpretazione del mondo, a un ri-orientamento dell’esperienza. Parlare delle macchine (e l’AI lo è) come se fossero capaci di pensare significa assumere una visione positivistica, monca, del pensiero; significa non comprendere che la fisica (senza bisogno di ricorrere alla trascendenza) non può spiegare tutti i procedimenti intellettuali umani. E significa che qualcuno pensa che gli uomini ragionino come macchine, o che lo desidera. E poiché la macchina è uno strumento, significa che qualcuno desidera – o, comunque sia, scommette – che gli esseri umani abbiano un pensiero solo strumentale, incapace di critica”.



La cultura non è neutrale. Ogni prospettiva culturale è appunto un prendere posizione. L’intelligenza artificiale invece genera l’illusione della neutralità, del dato incontrovertibile, mentre tutto dipende sempre invece dal modo di porre la domanda – l’IA risponde alle nostre domande, è questo il principio creativo di “addestramento” della macchina. In questo contesto, che ruolo può ancora svolgere, se ancora può, la figura che oggi appare così desueta dell’intellettuale? “L’AI genera l’illusione dell’oggettività in fruitori poco inclini al pensiero critico. La medesima illusione appartiene forse anche ai programmatori e ai responsabili dell’implementazione della AI in ogni ambito sociale; nondimeno, il risultato dell’applicazione dell’AI (generale) è il ‘pensiero unico’, il sogno tecnocratico di una società regolata non dagli uomini ma dalle macchine (in realtà, da chi sta dietro a queste). L’opposizione fra Intelligenza (artificiale) e Intellettuale in pratica non si realizza, data la sproporzione di forze tra i due. L’Intellettuale è portatore di pensiero critico, relativamente lento, che ri-pensa il già pensato; ed è portatore dell’esigenza di esercitare pubblicamente la sua ragione. Gli è congeniale soprattutto la stampa quotidiana (la cui lettura era per Hegel la preghiera del mattino dell’uomo laico moderno); proprio il mezzo di comunicazione di massa la cui fruizione e la cui autorevolezza sono oggi in picchiata, a tutto vantaggio di comunicazioni elettroniche brevissime. L’AI domina un’epoca in cui non c’è più opinione pubblica riflessiva, perché la società è scomposta in miriadi di individui singoli, governati da impulsi emotivi mediaticamente amplificati e manipolati – anche attraverso la ‘creazione’ di mondi virtuali, di ‘fake news’ strutturali. L’Intellettuale ha quasi solo un ruolo esornativo, di figurante in uno spettacolo mediatico che ha la finalità di creare interesse, consenso, divertimento. Il vero oppositore dell’AI potrebbe essere piuttosto il Professore, il Maestro che educa con pazienza alla libertà dello spirito. E che in prospettiva favorisce la rivitalizzazione della politica”.



Lei ha lavorato molto intorno al pensiero di Carl Schmitt che, per dirla molto brevemente, poneva nella decisione la sostanza del politico. Oggi, e ancora di più domani, quale può essere il “primato del politico” nel momento in cui la decisione potrebbe essere subordinata alla procedura ottimale suggerita dalla macchina? Vi è ancora spazio per la decisione, o vi è spazio solo per l’applicazione di procedure date? “Una decisione presa da macchine, per quanto sofisticate, non è una decisione ma un calcolo, secondo una procedura. La decisione invece implica uno stacco, una cesura, fra procedimento logico razionale e azione; ovvero vede la radice dell’azione non nella ragione – né in quella positivistica né in quella dialettica – ma nella volontà orientata, e colloca l’azione nella contingenza, nel disordine incomponibile: secondo Schmitt, nel rapporto amico-nemico. Il decisionismo si fonda sull’idea della a-razionalità del reale, ovvero sull’idea che la politica esige una presa di posizione, non un algoritmo funzionante con la logica ‘se… allora’. Il decisionismo sa che la materia della politica è l’eccezione, non la norma; l’anomalia, non la consequenzialità. E che dunque il ‘politico’ è autonomo da logiche tecniche o economiche: è incalcolabile. A evitare equivoci, va sottolineato che la decisione in questo senso non è solo quella del dittatore sovrano ma è un fatto collettivo: è una rivoluzione, un’attivazione del potere costituente, una guerra civile, una lotta di classe. I grandi momenti della storia non nascono dal computo ma dalla volontà, dalla libertà d’azione pre-normativa. La forma, l’ordine, la norma, vengono dopo. Una macchina può suggerire a un amministratore come fronteggiare un’emergenza (che è la temporanea deviazione dalle norme), sulla base di algoritmi sofisticati che imparano dall’esperienza della macchina stessa: ma agire in assenza di norme, re-inventare il mondo, re-interpretare le procedure, richiede un pensiero che abbia forza critica, finalità esplicite, e che abbia il coraggio di entrare nell’arena incalcolabile del Nuovo. La macchina è conservatrice, non può che riprodurre l’esistente, adattandolo a nuove circostanze – in realtà, per ora non è nemmeno in grado di guidare un’automobile. La decisione, invece, è potenzialmente innovatrice, oltre che certamente rischiosa – posto che sia ancora possibile in una società in cui i cittadini sono spinti a ragionare e ad agire in forme sempre più analoghe alle macchine. La decisione richiede ciò che nessuna macchina può avere: energia politica, invenzione, immaginazione. Anzi, la macchina vieta l’azione, la libertà: la imprigiona nelle sue logiche, che sono poi le logiche dei suoi programmatori e dei suoi produttori”.

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