Le tariffe annunciate da Trump sulle produzioni audiovisive straniere minacciano l’equilibrio economico e culturale tra Stati Uniti ed Europa. Il vero danno, per ora, è l’incertezza che frena investimenti e coproduzioni internazionali
E’ ancora — e sempre di più — Us vs. Rest of the World. Su Truth ha annunciato (in modo piuttosto vago, in verità) tariffe del 100% su tutte le produzioni internazionali. Queste produzioni, insieme agli incentivi fiscali europei (che talvolta favoriscono anche Studios statunitensi), sarebbero — secondo l’ex presidente — “attentati alla Sicurezza Nazionale”. Insomma, Vermiglio di Maura Delpero e Parthenope di Paolo Sorrentino messi sullo stesso piano della famigerata MS-13, degli Houthi e di Hamas.
Alcune associazioni di categoria come la Mpa (Motion Picture Association), la Dga (Directors Guild of America) e la Iatse (International Alliance of Theatrical Stage Employees), già lo scorso mese si erano schierate con la Casa Bianca, sostenendo che gli obblighi europei — imposti dalla Amsd (Audiovisual Media Services Directive), che prevede il reinvestimento di una percentuale dei proventi delle piattaforme (Netflix, Disney+, Prime Video, ecc.) nei territori europei per sostenere le produzioni locali — siano sproporzionati, discriminatori e non reciproci. In sostanza, ritengono ingiusto non poter riportare negli Stati Uniti l’intera quota dei proventi generati in Europa.
Come l’eventuale imposizione di dazi sulle produzioni straniere possa risolvere la questione resta tuttavia un interrogativo. Fondamentalmente, l’obiettivo americano sembra essere l’abolizione della cosiddetta eccezione culturale europea. Ma cosa ne sarà di tutte quelle produzioni americane che hanno girato all’estero per motivi legati agli incentivi fiscali (tax credit), alla riduzione dei costi di produzione, o semplicemente per esigenze artistiche legate alla trama o all’esoticità delle location? Questo potrebbe rappresentare un danno rilevante non solo per l’Europa e per gli Stati Uniti, ma soprattutto per quei filmmaker che da sempre portano il cinema in giro per il mondo.
Se ancora servissero prove, tutta la questione perde ulteriormente credibilità considerando che l’industria cinematografica statunitense è una delle poche a vantare una bilancia commerciale positiva: nel 2023 il surplus tra import ed export nel settore è stato di 15,3 miliardi di dollari. Se l’Unione Europea applicasse misure di reciprocità alle eventuali tariffe statunitensi, sarebbe un bagno di sangue soprattutto per i prodotti audiovisivi americani.
Al momento, in assenza di dettagli su come questi nuovi dazi verranno applicati, il danno maggiore di questo annuncio sconsiderato risiede, come spesso accade, nella crescita esponenziale dell’incertezza e nel crollo della fiducia: due fattori che spingono gli investitori privati ad allontanarsi dalle produzioni, in particolare da quelle indipendenti, rendendo ancora più difficile il già complicato compito di finanziare progetti cinematografici — siano essi europei, americani o, come spesso accade, coproduzioni tra i due continenti. Oggi, comunque, è arrivata la risposta del mercato: gli indici azionari di tutti gli Studios statunitensi hanno aperto in rosso.