Pacificato e consapevole, contro quelli che si lamentano della musica moderna. Dal palco di Sanremo al nuovo album “Canerandagio”, il cantautore risveglia la scena hip hop italiana più ruvido e ispirato che mai
L’epicentro dell’ultimo terremoto musicale è stato rilevato a Sanremo 2025 durante la serata delle cover, ma le scosse si sono avvertite in tutta Italia, isole comprese, con strascichi fino a qualche giorno fa. Nessun morto per fortuna, solo svenimenti e forti giramenti di testa tra i fan e di palle fra i detrattori. Alcuni dei nomi più importanti della scena rap di oggi in lucide tute rosse (Shablo, Tormento dei Sottotono, Joshua, Guè Pequeno dei Club Dogo) omaggiano Giovanni Pellino in arte Neffa cantando il suo classico del 1996 “Aspettando il sole”, successo popolare scritto insieme ai Messaggeri della dopa, la sua ballotta di musicisti amanti di black music e canne, consegnando il pezzo alla hit parade per l’eternità. Oggi non c’è sole intorno a me, salvami, risplendi e scaldami / Voglio sole, cerco nuova luce nella confusione di un guaglione. Prima che il rap diventasse una moda per fare soldi e follower, i portatori di dopamina e vibrazioni positive, dai megafoni del centro sociale occupato Isola nel Kantiere di Bologna, cantavano storie d’amore andate a male e cronache dolenti, come quella della famigerata Uno bianca, con uno stile musicale impeccabile e intensa poesia metropolitana. Neffa, Deda e DJ Gruff, che nel 1992 si facevano chiamare Sangue Misto, insieme ad altri compagni di questo viaggio psichedelico avevano riportato Bologna al centro della mappa della musica italiana, mentre a Milano, Roma, Torino e Napoli si registravano fenomeni simili e altrettanto interessanti.
Avevano imparato la lezione dalla old school americana (Afrika Bambaataa, DJ Kool Herc, Sugarhill Gang, Grandmaster Flash), cioè tagliare & cucire brevi spezzoni di musica jazz o funk e urlare al microfono la rabbia inespressa sull’ingiustizia sociale e sul razzismo. La loro fu una vera impresa, visto che nessuna etichetta discografica aveva mai scommesso prima su quel tipo di ricerca: su basi hip hop che campionavano i dischi del grande vibrafonista Milt Jackson e dell’immenso cantante-predicatore afroamericano Al Green, i Messaggeri della dopa adattavano i battiti e i proclami del rap d’oltreoceano alla lingua italiana, alla realtà sommersa della vita nelle case occupate di Bologna, alla condivisione artistica nei centri sociali di Milano e Torino.
I protagonisti delle sue storie somigliano agli antieroi disegnati da Andrea Pazienza, uno dei suoi miti. Tutti immersi nei fumi della cannabis
Ma Neffa si è spinto persino oltre, coniando un immaginario e una lingua che hanno fatto scuola: i protagonisti delle sue storie, che somigliano molto agli antieroi disegnati vent’anni prima dal genio di Andrea Pazienza, uno dei suoi miti, sono dei guaglioni (Neffa è nato nel 1967 a Scafati, in provincia di Salerno, ma si trasferisce presto con la famiglia a Bologna) e tra di loro si chiamano Chico Loco o Chicopisco, o altri nomi indistinguibili. Sono tutti immersi nei fumi della onnipresente cannabis, che rallenta il ritmo della musica ma placa gli animi, anche se la ballotta è spesso in sclero, incazzata, per come vanno le cose in quegli anni (le stragi di mafia, il razzismo della Lega, l’eroina che dilaga). La musica ha il suono onomatopeico boom cha boom cha tipico del funk di James Brown mandato al rallentatore, con i bassi profondi del reggae di Bob Marley. E quando fumano hashish tutte le tensioni accumulate durante il giorno si sciolgono in una fattanza blu, come l’omonima canzone che Neffa firma con i Sangue Misto nel 1994 (al trio lo scrittore Martino Vesentini ha dedicato il romanzo-rap “Altri verranno”). Ci sono tutti i colori del mondo, per lo sfondo, chico, solo il blu, e se gradisci, se preferisci / Come suona Sangue Misto tipo tu capisci, Sopra il beat caccio la mia rima e c’è qualcosa in più / Ho una fattanza blu.
L’ingresso sul palco di Sanremo 2025. Lieve panico in studio e euforia tra le prime file del pubblico incredulo. A novembre il concertone a Milano
A rivedere in rete il video dell’ingresso di Neffa sul palco di Sanremo 2025 si percepisce perfettamente un lieve panico in studio e l’euforia tra le prime file del pubblico incredulo. Dal nulla compare lui, Sua Maestà Neffa, pantaloni scuri, giubbino scuro e cappellino marrone che gli copre perfino gli occhi come se fosse un fattorino di Amazon con il furgone lasciato in doppia fila, l’antitesi della rap star tutta lustrini e catene d’oro. Lui è rilassato, si muove a passi felpati da felino mai troppo addomesticato. Il Maestro Pellino in persona, quando lo vado a trovare negli uffici milanesi della Sony Music, la sua attuale casa discografica, ci ride sopra divertito: “Un’entrata assolutamente calcolata. Era previsto che io entrassi dal lato più o meno verso la fine del ritornello di Joshua. La cosa strana è che dietro al palco non c’era nessuno a darmi il via quindi ho dovuto decidere io, però visto che io non decidevo qualcuno mi ha detto che ha avuto paura, perché a Sanremo mi sono sempre successe delle sfighe. Magari era proprio un colpo apoplettico dietro al palco”, ridacchia lui, “perché non viene? L’è muòrt…”. In realtà Neffa è vivo e in formissima e dopo anni di silenzio, interrotti da qualche timida apparizione in dischi di altri, è tornato con un’energia straordinaria, annunciando, proprio dopo Sanremo, un concertone a novembre a Milano (Universo Neffa).
Altra potente e profonda scossa di assestamento: dopo un paio di giorni dalla fine del Festival, di notte in rete compare un beat, il battito musicale minimo che sta alla base di una canzone hip hop, chiamato semplicemente “Littlefunkyintro”, in cui il Nostro snocciola la sua poesia che viene dal basso, dalla strada, forse addirittura dal sottosuolo: “Vieni a sentire che ho da dire con ’ste rime, con ’sto marchio registrato già da mo’ / sono passati 30 anni e passa, ancora in massa puoi sentire che mi copiano / lo sai ci sono fantasmi che tendono a sparire, gli altri invece che ritornano / sono senile ma se serve stile ancora te ne caccio”. E poco più avanti conclude, come se qualcuno non avesse ancora afferrato il messaggio: “Non so che dire ma mi chiamano Maestro, un po’ per dire che mi sono fatto vecchio / e non mi dire che è tutto finto, finisce che nemmeno io lo so quanto ho perso e quanto ho vinto”. All’improvviso, come uno scuotimento profondo del sottosuolo, viene annunciato persino l’arrivo del nuovo album “Canerandagio – Parte 1”, un vero e proprio album rap come non ne faceva da quell’ultimo mini LP di cinque brani del 1999, “Chicopisco”. Da allora aveva abbandonato il rap e si era cimentato nel pop da classifica, era finito a Sanremo, aveva prodotto colonne sonore di film di successo e, addirittura, cantato un intero disco in napoletano. Per i fan della prima ora sono stati anni di tradimento e abbandono, soprattutto dopo l’uscita dell’irresistibile e per alcuni inaccettabile “La mia signorina”, deliziosa canzonetta dedicata non a una donna ma alla marijuana. Per gli altri, che lo amano tutt’ora, il cambiamento di Neffa ha destato spaesamento, quasi il lutto per un parente tanto amato ma completamente fuori di testa. Ora in tanti sono curiosi di capire se il Re è ancora lucido o semplicemente è invecchiato come molti. E le sorprese ci sono, eccome.
“Canerandagio – Parte 1” (qualcuno sospetta avrà presto un seguito) è nato tra Bologna, Berlino e Milano, ed è stato profondamente influenzato da questi diversi ambienti metropolitani: “A Bologna ho dato inizio al progetto, per esempio la intro, in qualche modo sa un po’ più di mio primo rap. A Berlino ho fatto un grande lavoro di ricerca e ho registrato sia con Franco126 che con Lucariello. All’inizio pensavo di produrre qualcosa per lui ma mentre sentivo nascere la base di ‘Argiento’ gli ho detto senti, questa magari la facciamo per il mio album che sta venendo spettacolarmente bene!”, ride lui, e continua: “A Milano ho fatto finalizzazione e imbastardimento del lavoro perché comunque la mia presenza qui, in una città che è sicuramente più accelerata di come io sono abituato a vivere, mi ha dato questo senso di distorsione. Di suoni sporchi e crudi. E, devo dirti la verità, dopo quattro mesi a Berlino e sei a Milano faccio un po’ fatica a pensare di tornare in campagna vicino a Bologna”.
“Avevo lasciato la musica rap, la scena hip hop non l’ho lasciata mai”. Il rispetto per il genere, il nuovo disco “Canerandagio – Parte 1”
Nella chiacchierata sul divanetto Sony il fantasma del rap, il recluso dell’hip hop, il mutaforma della musica italiana mi racconta di come si sia finalmente pacificato rispetto all’addio dalla scena che pure aveva contribuito a creare, e anche del piacere provato nell’accettare l’invito di tornare a Sanremo proprio con quel pezzo: “Avevo lasciato la musica rap, la scena hip hop non l’ho lasciata mai. Per tanto tempo non volevo commistioni col genere, ma per motivi di grande rispetto, perché come tu sai è un genere molto di appartenenza”, mi dice con tono serio e posato, “preferivo seguire da lontano. In questi ultimi anni sono venuto a contatto con la scena attuale e man mano che l’album prendeva forma mi sentivo onestamente pacificato con tutto. Sapevo che venivo con un disco rap e al contempo sapevo anche che venivo in sostegno e in rispetto dell’hip hop. In passato io e quelli come me pativamo il fatto che il rap fosse rappresentato solo nelle pubblicità con la gente con le mani a corna, o che Jovanotti desse un’immagine del rap molto festaiola e poco di sofferenza”.
“Incontri ovunque persone infelici che però nei selfie sorridono sempre”. Chi usa scorciatoie tecnologiche e chi pensa solo ai numeri dello streaming
“Canerandagio – Parte 1”, benché duri poco meno di mezz’ora, racconta in modo molto crudo il mondo di oggi e la gente che ascolta musica di merda. “Incontri ovunque persone infelici che però nei selfie sorridono sempre”, mi dice un Neffa molto loquace, “tutti si lamentano della musica moderna però poi pensano solo a fare numeri con lo streaming. Fai vincere un quadruplo disco di platino a Dylan!”, conclude lui provocatorio. Incurante delle divisioni tra i generi il suo disco è impreziosito da ospiti pescati quasi sempre con estrema cura dal mondo del rap e del pop odierno: tra i più azzeccati spiccano il veterano Fabri Fibra, che si auto cita nel brano “Hype (nuoveindagini)”, su una base che Neffa stesso aveva regalato a Fibra per il disco “Turbe giovanili”, Franco126, Joan Thiele e la giovanissima Ele A.
Avere ancora qualcosa da dire e da dare, anche solo in termini di ispirazione musicale, è il mantra assoluto del Neffa di oggi, consapevole del tempo che passa, disilluso e distaccato da un mondo sempre più omologato, fatto di soldatini che marciano in fila indiana abbagliati dall’inganno della tecnologia come scorciatoia esistenziale, metafora evidente fin dalla copertina del disco e dai video in rete. Lui, che per le tante vite vissute somiglia più a un gatto, si identifica in un cane randagio e canta nella canzone che dà il titolo a tutto l’album “nella notte fredda da lontano io abbaio, però, quando voglio, non mi senti che arrivo / Voglio gli ossi dei tuoi scheletri dentro l’armadio, e non mi metti il guinzaglio / Sono un cane randagio, io non trovo mai la roba pronta nel piatto / Con le cose che tu butti a terra io sopravvivo, qualche volta con il branco anche da solo combatto / E ho fatto un patto col gatto”. Quest’ultimo verso, poi, che in rete ha scatenato polemiche tra i fan, è un autentico colpo di genio, che fa venire in mente il guizzo creativo di un Celentano rap. “Io penso che in realtà in quella frase sia racchiuso il punto focale del suo malessere, il fulcro di tutto questo intero disco”, dice il divulgatore musicale e grande esperto di hip hop Alessandro Grimaldini, “ovvero l’obbligatorietà del compromesso al fine della sopravvivenza”.
Un cane e un gatto che tramano insieme, del resto, è un’immagine che promette scintille. Persi nel flusso del suo racconto, anzi del flow come si dice in gergo hip hop, lui butta un occhio divertito alla mia agenda contenente svariate foto di canuzzi, di spiriti solitari che vagano senza padroni, e finiamo a parlare di un altro grande recluso, lo scrittore americano James Ellroy, passione comune. Mi racconta anche di un inedito incontro con l’indimenticabile Pino Daniele che voleva lui cantasse su un ritmo in cinque quarti, e Neffa si mette a suonare le ginocchia mimando il fraseggio jazzato: “Alla fine l’ho fatto, però chi conosce un po’ Pino sa anche che era uno dai facili amori e disamori, quindi alla fine il pezzo non è mai uscito. Ma da qualche parte dovrei ancora avere una cassettina con la base”. A un certo punto i discografici ci riportano sulla retta via: “Poi ci si chiede perché le interviste durano troppo”, interviene in mio sostegno lui. Il mio tempo sembra scaduto ma il flusso dei pensieri che Neffa ha scatenato non si può fermare. Il guaglione è tornato e non deve dimostrare niente a nessuno. Come canta lui ha “ancora 10 sacchi in tasca e mo’ c’è l’euro, la fila di invidiosi è lunga e pronta per la neuro”.