La circolare del ministro Valditara e la fine dello studio a casa rappresentano l’allontanamento da un modello educativo che non regge più. Oggi sarebbe necessario avere una scuola dove si studia tutti insieme e si torna a casa liberi, come dopo l’ufficio
Ai più romantici la circolare ministeriale che raccomanda di ridurre il carico di compiti a casa, tanto più per le vacanze, sembrerà un’esortazione a che i ragazzi scoprano il mondo fuori dalla scuola, come la lettera di quel professore che qualche anno fa assegnò il compito estivo di curare le amicizie, passeggiare, dormire… Ai più pragmatici, invece, il breve del ministro Valditara può apparire la presa di coscienza del mutato rapporto fra la vita scolastica degli alunni e quella familiare; un passo in più verso uno school-life balance che si adegui al work-life balance perseguito da buona parte delle aziende per cui lavorano numerosissimi genitori.
Il dato di fatto da cui partire è che i compiti non si fanno più. Quanto meno, non nel senso in cui siamo stati abituati per generazioni: ore mattutine dedicate alle lezioni comunitarie, ore pomeridiane dedicate allo studio individuale di ciò che era stato spiegato, si trattasse di fare ghirigori sul sussidiario o di scervellarsi sulle derivate. Alle elementari, molte scuole a tempo pieno esauriscono il carico di lavoro nel giro delle otto ore quotidiane; nella scuola media, è ormai risaputo che si lavora solo per la sopravvivenza, resa ardimentosa dallo sviluppo psicofisico e dall’integrazione sociale; alle superiori, abbondano i docenti ormai rassegnati all’evenienza che i loro studenti non aprano mai il manuale, ma si limitino a ripetere ciò che hanno più o meno confusamente ascoltato in aula. Quando poi qualcuno li fa, bisogna interrogarsi sulla qualità di questi compiti. In senso assoluto, spesso non sono utili, in quanto vengono svolti in mezzo a infinite distrazioni continuative (una per tutte: il telefono) oppure ricorrendo all’aiuto dei genitori e, per far prima, del web. In senso relativo, poi, i compiti finiscono per creare disparità fra i risultati che possono essere conseguiti da chi dispone di una cameretta in cui rintanarsi serafico e da chi invece deve magari svolgerli sul tavolone della cucina, in mezzo a fratellini urlanti o al trambusto domestico. Piaccia o no, ci troviamo in una situazione concreta in cui i compiti a casa non sembrano più rispondere all’esigenza di far progredire gli studenti nell’apprendimento.
Se si ha davvero a cuore lo studio, la soluzione ideale è abolire i compiti a casa. Anzitutto nel senso di abolire la casa: così come sarebbe inaccettabile che un’azienda imponesse a un dipendente di portarsi via dall’ufficio tutti i santi giorni del lavoro da restituire il giorno dopo (figurarsi durante le vacanze), è piuttosto singolare che la scuola imperni il proprio mandato educativo su un completamento affidato all’aleatorietà delle condizioni esterne. Vivessimo in un mondo ideale, in cui alle circolari e alle pie intenzioni fanno seguito i fatti, le scuole dovrebbero prolungare l’orario di apertura fino a sera, diventando luogo in cui gli alunni possano restare a studiare per poi sentirsi liberi una volta terminato il lavoro.
E’ necessario tuttavia anche abolire i compiti, almeno così come sono stati concepiti. Al riguardo fa ancora testo la circolare ministeriale del 20 febbraio 1964, che li identifica come “particolari forme di lavoro indispensabili per la formulazione dei giudizi che la scuola è tenuta a esprimere”. Significa che i compiti vengono assegnati in vista e in ragione delle verifiche, e che esse devono quindi venire calendarizzate con costanza per controllare lo svolgimento dei compiti. Sessant’anni dopo, è tempo di un approccio più progettuale, in cui lo studio assuma un respiro più ampio, a lunga scadenza, con studenti che restino a scuola tutto il giorno per venire gradualmente abituati a prepararsi a verifiche conclusive, atte a certificare il raggiungimento degli obiettivi didattici anziché a monitorarne compulsivamente l’avanzamento. In tutto ciò, diverrebbe fondamentale la presenza costante dei docenti, ovviamente retribuiti: in una nazione di analfabeti funzionali, è inevitabile che la scuola diventi un immenso doposcuola.