“Il Palio delle rane” di Alessio Torino, un bestiario e una appenninica fiaba ancestrale

L’autore racconta un paese ai margini con una lingua scartavetrata e personaggi perduti: un poema disarticolato dove l’istinto batte l’avanguardia, e la fiaba si fa crudele liturgia

Raccontare un microcosmo con le sue osmosi e le decomposizioni, con i trasalimenti e gli equilibri ecosistemici, è sempre un’impresa: che si raddoppia se la scrittura, quasi per una singolare malìa, abbandona il tessuto connettivo della prosa per sbriciolarsi in una versificazione singultante. Sarebbe però errato definire Il Palio delle rane di Alessio Torino (Mondadori, 180 pp., 18,50 euro) un “romanzo sperimentale”: la scelta dell’a capo da parte dell’autore urbinate ha il carattere dell’istintività, più che di una scelta d’avanguardia stilistica o di una rivendicazione d’intenti entro una pur illustre tradizione (dalle prove di Les Murray e Anne Carson fino a Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini). Istintività che agisce innanzitutto nel cono d’ombra del “soggetto frammentato” additato da Fredric Jameson nella sua ricognizione sul postmoderno, e che colloca il romanzo stesso in un’urgenza visiva di procedere spediti, in una preoccupazione di comunicatività, senza disattendere le scariche elettriche dell’hysterical realism.

I microcosmi, si diceva. Quello di Torino è Luceoli, un piccolo paese appenninico tra Marche e Umbria (si legge in controluce l’amato territorio di Cantiano), avvolto da case di pietra e lepri, in cui la protagonista Raniera – figlia di una zingara, cresciuta in una roulotte e aiutata dalla Caritas – è la “Gran Custode del Palio”: il suo compito è di tirar su le rane per il dì di festa dalla sua dimora “ferroviaria” (“Casa-Casello”), sapendo bene che finiranno arrostite e solo le “più fortunate” saranno schiacciate dalle ruote degli “scarriolanti”. Nella lunga sfilata dei suoi underdogs dai nomi pynchoniani (Van Baldi, Leon Battista Becchino, Das Lubbert “accademico”, l’idraulico Michael Jordan, il Cencio, Faust, Max, Anthony Bruxelles), Torino guarda un po’ al McCarthy di Suttree – persino nelle improvvise ironie (“Gli Iron Maiden / hanno lo stesso diritto di Rossini di entrare nella storia del rock”) – un po’ al Volponi del Lanciatore di giavellotto. Certo è che il Palio si dimostra “un vero e proprio rito”, dalla filigrana ancestrale: e il sortilegio diegetico suggerisce d’altronde la presenza e il tema crudele del fiabesco. “C’era una volta / il paese di Luceoli, / un paese o forse / soltanto una lepre. // A metà del Corso / la fontanella / ti gela i denti. / In primavera / i rintocchi della chiesa / svegliano / le rondini”. Tra cicale cinesi e istrici, bombi e topi, “nuvole di farfalle” e trote fario, amplissimo è il bestiario, anche questo un retaggio volponiano, però declinato in senso econarrativo. La probità d’animo della Raniera richiama forse una francescana ecologia integrale, in tensione, lontana (“Succede come quando una farfalla ti svolazza / intorno e tu apri una mano o tutte e due, / resti ferma senza nemmeno muovere gli occhi / pensando di essere san Francesco o un santone / qualsiasi o un albero, e la farfalla decide / di posarsi proprio sulle tue dita”). E il salto di libertà finale è racchiuso nell’immagine del calcinculo, del drappo ancora da raggiungere.

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