Non si sa se sia stata fatta un’asta per il lotto concesso al paese arabo sull’isoletta di Sant’Elena, ma se crede davvero alla cultura come strumento di pace, deve dare una casa alla Palestina. Trasformando il lembo di terra sulla Laguna in un passo simbolico verso una vera nazione
Il Qatar diversifica e punta cinquanta milioni di euro su Venezia, briciole in confronto a quelli elargiti per Hamas. Ma se i fondi per Hamas hanno prodotto rovine, quelli destinati a Venezia partoriranno un edificio, il trentunesimo padiglione nazionale dentro ai Giardini della Biennale di Venezia. E’ stata appena annunciata l’architetta, la libanese Lina Ghotmeh. Gli ultimi ad avere questa fortuna negli ultimi cinquant’anni sono state l’Australia nel 1988 e la Corea del sud nel 1995. Nel 1991 fu inaugurato all’ingresso il padiglione del libro disegnato da James Stirling. Dopodiché, sovrintendenze varie e piani regolatori ambientali hanno proibito di lasciare giù anche un singolo mattone.
Di richieste ufficiali o meno da parte di nazioni emergenti e abbienti ce ne sono state, ma al massimo sono stati concessi spazi all’Arsenale. I giardini fino a questa settimana rimanevano, logico o illogico che fosse, zona protetta. Ma i poteri delle sovrintendenze non sono sottintesi e i piani regolatori sono regolabili. Non si sa se sia stata fatta un’asta per il lotto concesso al Qatar sull’isoletta di Sant’Elena, dove già ci sono i padiglioni di Brasile, Grecia, Egitto, Polonia, Romania, Austria, Serbia e il padiglione Venezia. Se l’asta non è stata fatta, non si capisce il criterio con il quale lo spazio sia stato assegnato al Qatar, a parte i cinquanta milioni, nemmeno così tanti, per salvare Venezia – solo il Mose è costato più di sei miliardi di euro e nemmeno lui è riuscito a salvarla del tutto. Altri paesi, in primis l’Arabia Saudita, cugini nobili del Qatar, e poi la Cina sono sicuro avrebbero partecipato volentieri e magari anche più generosamente a un bando di gara. Ma il Qatar, forse più e prima di questi, ha speso molte energie, di tutti i tipi, per costruirsi un’immagine culturale alta e “potabile”.
I dubbi comunque, per quanto inutili, sull’assegnazione diretta rimangono. La decisione è sta presa e quindi cosa fatta capo ha. C’è chi vuole la Groenlandia, Panama o Gaza, chi un pezzo dell’Ucraina, chi Taiwan, chi si accontenta di un pezzettino di erba a Venezia. La Vanità, direbbe l’Ecclesiasta, ha scale diverse, costi diversi e pure interlocutori più o meno attenti alla vanità medesima. Ora però che il Qatar ha pure lei, la propria colonia immobiliare in terra veneziana, vorrei sperare che alla vanità facesse corrispondere una coerenza di contenuti. Non dico ospitare gli architetti o gli artisti iscritti all’“ordine di Hamas” ma l’arte e l’architettura palestinese sì.
Un padiglione ai Giardini è territorio sovrano come un’ambasciata e dentro ci si può fare e invitare cosa e chi si vuole. Credo che a Doha non siano propensi ad accogliere più di tanto i palestinesi spediti da Trump per far posto alla sua “Crosta Smeralda”, ma nel nuovo padiglione hanno l’obbligo di farlo se veramente credono alla causa che sostengono. La cultura è legata a popoli reali, non a popoli immaginari. Se il Qatar ci crede davvero alla cultura come strumento di pace e democrazia faccia quello che nessuno è stato in grado di fare alla Biennale: dare una casa alla Palestina facendo diventare il lembo di terra sulla Laguna un passo simbolico verso una vera nazione. Nel 2003 invitai Sandi Hilal e Alessandro Petti a presentare un padiglione palestinese, il progetto si chiamava “Stateless Nation”. Agli sceicchi del Qatar suggerisco un titolo per il loro primo progetto: State+Nation=Justice.