Il cristiano Gentile: il grande filosofo che capì la forza della Chiesa

Così Gentile cercò di usare la Chiesa per inculcare nel cuore degli italiani una fede, una moralità, una virtù, diciamo pure: una religiosità nuova che portasse a compimento il Risorgimento

A differenza di Carl Schmitt o Martin Heidegger, i quali, ancora oggi, alimentano discussioni accesissime tra chi considera la loro compromissione con il nazionalsocialismo un accidente e chi invece una sorta di necessaria conseguenza del loro pensiero, Giovanni Gentile, da questo punto di vista, non ha goduto né gode di alcuna indulgenza. Egli è stato e resta per tutti, senza ombra di dubbio, il filosofo ufficiale del fascismo: un filosofo al potere, il quale, nelle sue decisioni politiche, ha sempre cercato di realizzare, fino all’ultimo e con grande coerenza, le proprie convinzioni filosofiche. Per una volta almeno possiamo dire tranquillamente che la forza di carattere dell’italiano non è minimamente comparabile con quella dei due tedeschi. L’unità di teoria e prassi, fulcro del pensiero gentiliano, si riverbera quasi perfettamente nella coerenza che riscontriamo tra il filosofo Gentile e l’uomo, l’uomo politico Gentile. Ma, come si suol dire, corruptio optimi pessima est. E quanto il pensiero gentiliano fosse totalitario, diciamo pure, “fascista”, emerge in modo esemplare proprio affrontando il problema del suo rapporto con il cristianesimo. A questo proposito, è appena il caso di precisare che stiamo parlando di fascismo, non di nazionalsocialismo. Gentile è un fascista, non un nazista. La sua adesione al fascismo avviene non a caso come una sorta di naturale prolungamento del suo liberalismo risorgimentale. Il fascismo gli si presenterà addirittura come la più coerente, la più storicamente matura e perfetta concezione dello stato come libertà.



Molto schematicamente, mi soffermerò su due punti: il rapporto in cui, secondo Gentile, stanno religione e filosofia e la concezione gentiliano-fascista dello stato e il suo rapporto con la religione. Il sistema filosofico di Giovanni Gentile, il cosiddetto “attualismo” o filosofia della prassi, ruota intorno a un nucleo fondamentale, che è bene ricordare, altrimenti c’è il rischio di non comprendere il vero significato di molte sue affermazioni. Questo nucleo, in estrema sintesi, è rappresentato dalla “immanente dialettica dell’atto spirituale come sintesi di soggetto e oggetto”; una sintesi in cui soggetto e oggetto si compenetrano senza mai poter stare l’uno senza l’altro. Da questo punto di vista, secondo Gentile, tutto è attività spirituale; non c’è nulla che non sia il prodotto dello stesso spirito; la storia non è altro che il “farsi” dello spirito, il quale è veramente “concreto”, soltanto nella misura in cui sa vedersi presente in tutte le forme storiche che esso assume e supera (la hegeliana Aufhebung). Quanto alla verità, essa, per Gentile, non è qualcosa di assoluto, eterno, oggettivo, “di cui l’uomo è spettatore”: “la verità si fa, è storica, viene du dedans; e solo du dedans”. Tutto insomma deve essere considerato “immanente nell’atto dello spirito”; la realtà non è altro se non la realizzazione di questo spirito che, per Gentile, è Soggetto, il soggetto “concreto”, quello che Marx aveva giustamente individuato come il “produttore” della realtà, e che, in quanto tale, come vedremo più avanti, trova la sua più perfetta incarnazione nello stato. Non è questa ovviamente la sede per approfondire nel dettaglio il senso profondo dell’attualismo gentiliano, il modo in cui in esso convergono hegelismo, materialismo, giobertismo e quant’altro (si tenga presente che un’opera scritta da Gentile nel 1899, La filosofia di Marx, venne lodata espressamente da Lenin come uno dei lavori più interessanti scritti su Marx da un non marxista). Vorrei dire invece qualcosa sul ruolo che all’interno di questo pensiero viene ad assumere la religione, tenendo presente, a mo’ di premessa, che la religione cui fa esplicito riferimento Gentile è quasi sempre il cristianesimo nella sua configurazione cattolica.



Per Gentile, “l’essenza della religione è il misticismo”, ovvero la consapevolezza che l’uomo può diventare qualcosa soltanto immedesimandosi con Dio. Il merito della religione è quindi quello di spingere l’uomo ad “andare al di là” della sua propria natura, a “sorpassarla, per trovare Dio che la trascende”. Ma l’uomo religioso, secondo Gentile, non è in grado di valorizzare a pieno questa divinità che scopre in se stesso, anzi, in essa si intorpidisce e si addormenta, fino a ritenersi incapace di conoscerla veramente senza una rivelazione e di agire conformemente alla sua volontà senza la grazia. “Perché meravigliarsi – dice Gentile – se il cristianesimo, dottrina essenzialmente affermatrice della realtà dello spirito umano (idealismo volontarista), debba e abbia sempre dovuto travagliarsi in problemi insolubili, come da Agostino, anzi da Paolo in poi, quello della grazia? Il cristianesimo, come idealismo, ha bisogno di non negare il libero arbitrio; come religione, non può ammetterlo. Il giansenismo, con logica da scuola, dice che tra grazia e libero arbitrio non c’è termine medio. Ma la Chiesa ha costantemente mirato al termine medio per vivere, per esercitare quella possente azione storica che essa ha esercitato sempre, poiché ispirata quasi da un provvidenziale istinto di vita, non ha consentito mai a sacrificare all’astratta esigenza religiosa dello schietto misticismo il grande principio morale proclamato dal cristianesimo, dell’uomo creatore del suo mondo, o della realtà che solo la volontà umana può realizzare”. Come si può vedere, al di là di un atteggiamento riduttivo, di chiaro stampo illuministico, nei confronti della religione, traspare qui una certa considerazione positiva da parte di Gentile nei riguardi della Chiesa cattolica, per la capacità di quest’ultima di tener viva, seppure in modo inadeguato, un’istanza di sintesi tra divino ed umano, tra libertà e storia, che però soltanto la filosofia è in grado di operare veramente. Per operare questa sintesi, infatti, secondo Gentile, è necessario che si esca dal “platonismo” (il modo gentiliano per dire l’idea di una realtà e di una verità esterne allo spirito che le conosce), del quale il cattolicesimo resta schiavo, e che si entri invece in un “nuovo idealismo”, capace di dissolvere “ogni opposizione e alterità”, perché capace di concepirsi come “ricerca dell’assoluto nello spirito, anzi ricerca dello stesso spirito assoluto”.

Da questo punto di vista, come dice Gentile, “la filosofia…non nega la religione, ma soltanto l’interpretazione che la religione dà di se stessa, o meglio del proprio oggetto, e mira a un concetto della realtà, in cui all’animo sia dato posare con la stessa fede, con la quale egli s’abbandona a Dio nel più genuino dei suoi atteggiamenti religiosi”. E ancora: “Il morire della religione è il vivere dello spirito che vive la religione superandola; e superandola, realizza il bene e adempie la sua missione eterna al di sopra di tutte le religioni”. Per farla breve, anche il cristianesimo deve essere “inverato” dalla filosofia attualistica, la quale si concepisce precisamente come questo “inveramento”, ossia come capacità di portare alla luce ciò che nella religione cristiana è soltanto implicito. Se le cose stanno in questo modo, non deve sorprendere la battaglia che Gentile, nominato ministro della Pubblica istruzione del governo fascista, conduce in favore dell’insegnamento della religione nelle scuole elementari. Come aveva già scritto nel 1907 (Educazione e scuola laica), c’è pur sempre nella religione un initium sapientiae, che aiuta il bambino a prendere consapevolezza di quella divinità che è in noi e che, più avanti, la filosofia dischiuderà nel suo vero significato e valore “immanente” allo spirito: “La scuola media, aperta alla filosofia, e preparatrice alla cultura della nazione, essa sì può aspirare a quella più alta laicità che è nei nostri voti. Ma la primaria, dalla nostra laicità non guadagna altro che la perdita di quell’initium sapientiae, che è pure qualcosa, per chi ci rifletta bene, ancor che razionalista”. Con assoluta coerenza, nel 1923, il Gentile ministro introdurrà nelle scuole primarie l’insegnamento della religione come una sorta di “garanzia della serietà di pensiero della futura generazione”; “il divino della religione” è infatti “una posizione dell’assoluto che rivela al fanciullo immediatamente i suoi doveri di uomo” (ivi). La religione insomma, conformemente a una tendenza di pensiero largamente condivisa, seppure con diversi accenti, nell’ambito della cultura moderna, non è altro se non una philosophia puerorum, una “filosofia per le moltitudini”, ma, proprio per questo, – e qui Gentile deve battersi con il laicismo oltranzista dei liberali italiani – utilissima e persino indispensabile.



Ne risulta da parte di Gentile una sostanziale ambivalenza nei riguardi della Chiesa cattolica, fatta oggetto ora di radicale diffidenza ed esplicita ostilità, ora di ammirata considerazione. Per un verso, non c’è modo di conciliare filosofia della prassi e cattolicesimo, tanto è vero che, a un certo punto, gli scritti gentiliani sono finiti non a caso nell’indice dei libri proibiti; per un altro, però, Gentile sa bene che proprio di religione cattolica è fatta gran parte della cultura italiana. Da Dante a Tasso, da Ariosto a Manzoni, da Vico a Rosmini e Gioberti, non si può conoscere la poesia, la letteratura o la filosofia italiana, se non si conosce l’esperienza religiosa che ne sta alla base. Gli stessi Doveri di Mazzini, uno dei grandi padri spirituali del nostro Risorgimento, non sono comprensibili, se non tiriamo in ballo l’idea di Dio. Di qui la dura critica di Gentile nei riguardi dell’anticlericalismo assunto dalla maggior parte dei liberali risorgimentali italiani, i quali, volendo scalzare alla radice il potere della Chiesa, non sono stati capaci di comprenderne la “forza”; si sono messi a perseguire il sogno impossibile di uno stato “agnostico”, senza accorgersi che “uno stato agnostico non solo dovrebbe disinteressarsi di tutta la religione, ma della cultura, poiché agnosticismo è professione d’ignoranza intorno alla verità”. Il riformatore Gentile comprende invece assai bene la “forza” della Chiesa cattolica e, proprio per questo, cerca di svuotarla del suo involucro astrattamente metafisico e di utilizzarla per inculcare nel cuore degli italiani una fede, una moralità, una virtù, diciamo pure: una religiosità nuova, che possano finalmente portare a compimento il Risorgimento.



Massimo D’Azeglio aveva detto nell’Ottocento che l’Italia era fatta, ma che occorreva fare gli italiani. Giovanni Gentile vuole completare quest’opera, e sente che per farlo ha bisogno di assumere una atteggiamento tattico nei riguardi della Chiesa cattolica. La religione cattolica, se mi è consentita l’espressione, viene da lui utilizzata come una sorta di anticamera a una più autentica religione civile, alla base della quale debbono stare abnegazione, spirito di sacrificio, rispetto, anzi, “devozione”, per la legge, capacità di “ritrovare se stessi in una realtà che ci limita e ci trascende”. “Se vogliamo pensare seriamente, e pagare di persona le nostre idee e portarle alla vita e combattere per esse… – scrive Gentile – il nostro pensiero non può non essere religioso. E se la nostra azione è azione politica o stato, il nostro stato conviene pure che sia governato da uno spirito schiettamente e profondamente religioso”. E’ perché pensa a una sorta di teocrazia laica che Gentile si batte in favore dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari. Ed è per lo stesso motivo (di nuovo l’ambivalenza) che Gentile è fortemente contrario alla nascita di un partito dei cattolici, nel 1919, e, dieci anni più tardi, alla volontà del fascismo di porre fine alla cosiddetta “questione romana” con i famosi “Patti Lateranensi”.



Contestando ogni legittimità storica al partito politico dei cattolici, fondato da Luigi Sturzo nel 1919, perché considerato come una sorta di longa manus del Papa sulle vicende politiche italiane, il liberalismo di Gentile si colora chiaramente di motivi illiberali e tendenzialmente totalitari. Il riformatore religioso in senso vetero liberale, il continuatore degli ideali risorgimentali, assertore di un immanentismo rigoroso e di uno storicismo assoluto, stava in realtà allestendo la dottrina dello stato fascista, prima ancora che il fascismo incominciasse a muovere i primi passi. Quanto poi alla diffidenza che, successivamente, col fascismo al potere, lo stesso Gentile manifesterà nei riguardi della volontà di Mussolini di venire a patti con la Chiesa e di riconoscere, tra le altre cose, lo stato della Città del Vaticano, c’è da dire che essa si spiega con gli stessi motivi. Nella cosiddetta “conciliazione” Gentile vede il pericolo che il fascismo possa ritardare la sua conquista egemonica della società italiana. Come aveva già scritto nel 1920: “Il problema religioso della politica non è …propriamente quello del rapporto tra lo stato e la Chiesa. Questo è un semplice incidente, al quale il pensatore politico, riconosciuto che abbia il carattere intrinsecamente religioso della vita, guarderà senza pregiudizi né preoccupazioni, sicuro che esso si risolverà a poco a poco, per logico svolgimento di situazioni spirituali, se chi sente e promuove l’interesse dello stato, riconoscerà la funzione essenziale della religione anche nella vita politica dello spirito; e senza rinunce e delegazioni assurde, affermando la sovranità assoluta e l’autonomia dello stato, assegnerà a questo non solo un fine di astratta cultura, ma di formazione intera e compiuta delle energie spirituali, che esso disciplina e potenzia: formazione, che non può essere intellettuale, senza essere insieme morale e religiosa”.

Qualsiasi rinuncia o delega da parte dello stato è per Gentile inconcepibile già prima che si ponga seriamente il problema di far nascere uno stato, lo “Stato del Vaticano”, per volontà di un altro stato, quello italiano. Nella concreta prassi politica, si può certamente tergiversare, si può certamente concedere qualcosa alla Chiesa; in alcuni casi addirittura si deve, come nel caso dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare. Ma guai a dimenticare l’obiettivo a cui si deve tendere: “la sovranità assoluta e l’autonomia dello stato”. Per quanto Gentile parli di “spirito religioso”, di “formazione intellettuale” che deve essere “insieme morale e religiosa”, ciò che unicamente deve restare di veramente “divino” nella società è soltanto lo stato; soltanto lo stato incarna infatti la “volontà universale” dell’individuo in quanto “autocoscienza”: uno stato che “non è inter homines, ma in interiore homine” e, in quanto tale, proprio come il Dio di Agostino, è “più interiore a noi di noi stessi”. “Tutto nello stato, tutto per lo stato; niente al di fuori dello stato, niente contro lo stato”: ecco la traduzione fascista di questa religione dello stato, che sta al centro della filosofia gentiliana. Vale dunque anche per Gentile, quanto Adriano Tilgher aveva scritto riferendosi al fascismo: siamo di fronte ad un “assoluto attivismo trapiantato sul terreno della politica”.



A questo punto, chiarito il carattere fortemente immanentistico e totalitario del pensiero gentiliano, vorrei riprendere l’ambiguità di cui parlavo poco sopra, circa l’atteggiamento di Gentile nei riguardi della Chiesa cattolica. Da una parte infatti, ai suoi occhi, essa esprime certamente una sorta di schiavitù dello spirito che va in quanto tale superata; dall’altra però, essa sembra non poter mai morire, perché, come dice lo stesso Gentile, “Platone non muore”. Ebbene a me pare che in questa ambiguità, a conferma del nesso strettissimo che sussiste tra la filosofia di Giovanni Gentile e la vicenda storica del fascismo italiano, si riverberi in modo inequivocabile quella che, per Renzo de Felice, uno dei più grandi storici italiani del fascismo, è la distinzione tra “fascismo movimento” e “fascismo regime” (De Felice, 1975). In quanto “movimento”, il fascismo, secondo De Felice, avrebbe voluto riformare l’Italia con una rivoluzione ben più profonda e incisiva di quella giacobina o marxista; in quanto “regime”, esso non ha potuto recepire se non in minima parte questo programma, poiché i poteri che avrebbe voluto scardinare (e tra questi c’era sicuramente anche la Chiesa) li concepiva anche come necessari alla sua affermazione.

Queste connessioni rafforzano in me un’opinione, che poi era anche l’opinione di De Felice, circa la specificità “italiana” del fascismo. Ma mi rendo conto di toccare un problema storiografico assai delicato, che non può essere approfondito in questa sede. Certamente “italiana” era in ogni caso la filosofia di Giovanni Gentile, il cui rapporto col Cristianesimo mostra almeno una cosa con assoluta certezza: tale filosofia, al pari della vicenda storica del fascismo, lungi dall’andare verso il compimento della filosofia moderna o del Risorgimento italiano, andava semplicemente verso il nichilismo. Questo avrebbe detto un autore come Heidegger. A conferma, tra l’altro (e lo dico un po’ per compensare quanto ho detto all’inizio e come una sorta di consolazione per tutti noi), che le nostre debolezze di carattere non necessariamente ci impediscono di vedere come stanno le cose.

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