Un incontro che spinge a interrogarsi sul senso profondo di certi silenzi, tra teologia e prime lallazioni infantili. Un breve viaggio tra parole indecifrabili e intuizioni che non hanno bisogno di essere dette
Recentemente ho conosciuto un teologo di Santa Romana Chiesa. Ammetto che avevo un pregiudizio sui teologi: pensavo parlassero difficile. Invece questo teologo parla normale – quasi sempre – e perfino discorre con un’ignorante come me. Gli mando una e-mail su una questione per me importante. Lui non risponde. Avrò detto qualcosa di scorretto, penso. “Mi ha già scartato come culturalmente impresentabile”? chiedo su WhatsApp. “Macché – risponde – assolutamente, è che ho bisogno di tempo per elaborare una risposta in profondità, sono un po’ apofatico”.
Ovviamente non domando che vuole dire “apofatico”. Tanto, c’è Wikipedia. Ma Wikipedia stavolta è criptica. Un altro sito: dal greco apò phemi, “non dire”, spiega, laconico. Dunque? “Non posso dire”, “fatico a formulare?”. Non mi è affatto chiaro. Se dici “apofatico” a cena con gli amici, immagino l’istante di silenzio. Tutti che pensano a una rara e grave malattia – perciò tacciono, compunti. Quindi la prossima volta, mi riprometto, al teologo glielo chiedo. Nel frattempo arriva a casa la figlia con Giovanni, quattro mesi. Lui mi guarda, mi riconosce, sorride. “Uaua”, gli dico – è il nostro saluto abituale. Lo prendo in braccio – la pace che emana da un neonato mi allarga il respiro – e me lo stringo addosso. “Eua”, comincia lui, e io rispondo. Poi, inaspettata, per la prima volta: “Bbbb”. Una consonante! Ora Giovanni si lascia andare a una lallazione entusiasta, uaua, gu, aua, eua, pu. Mi guarda, come volesse dirmi qualcosa. Che siano apofatici anche i lattanti? Non sanno dare forma alle parole. (E chissà poi cosa racconterebbero, loro che forse ancora ricordano). Che sia per questo che non parlano? Ci sono cose che non devono essere dette. “Di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere”, diceva Ludwig Wittgenstein. Ora che ho questo dubbio però di nascosto interpello Giovanni: “Parla, fidati, non lo dirò a nessuno”. Lui, niente. Apofatico o omertoso? Chiude gli occhi. Ora si fa più pesante fra le braccia, nell’abbandono fiducioso del sonno.