La Cambogia comunarda durò tre anni, otto mesi e venti giorni: 1,7 milioni di morti, uccisi dal regime o dalla fame e dalle malattie. Ma intellettuali e giornalisti occidentali videro in Pol Pot un amico del popolo
“La bandiera della resistenza sventola su Phnom Penh”. Il 17 aprile 1975 fu con questo glorioso titolo, accompagnato da una foto di contadini cambogiani, che il quotidiano Libération salutò la presa della capitale cambogiana da parte dei Khmer rossi, che portò alla caduta del governo di Lon Nol, sostenuto dagli Stati Uniti. Il giorno prima dell’ingresso dei Khmer rossi, il giornalista Jacques Decornoy esultò sul Monde: “Sarà creata una nuova società”. Anche Sven-Oskar Ruhmen del quotidiano svedese Aftonbladet si trovava a Phnom Penh. “Per uno spettatore svedese è stato uno spettacolo straordinario” scrisse Ruhmen all’arrivo in città dei Khmer rossi. “Non ho mai assistito a una scena più bella. Mi sono sentito felice e sollevato e non ho potuto fare a meno di piangere davanti a ciò che vedevo”.
Il 17 aprile di cinquant’anni fa, i primi guerriglieri comparvero sul boulevard Monivong di Phnom Penh e rispondevano con un sorriso ai saluti, accettavano l’abbraccio dei bambini, sembravano voler fugare ogni paura. Ma era un’illusione, un crudelissimo inganno. Poi la paura calò sulla capitale “liberata” della Cambogia. I Khmer entrarono in un grande ospedale e ordinarono a tutti, malati e invalidi, anziani di uscire. Tutti verso la campagna. Anzi, verso il mito della campagna.
Pol Pot inaugurò il suo regno con il sangue Khmer e non smetterà di farlo scorrere. Nelle mani di questi nuovi padroni, il potere conservava il suo anonimato. L’identità dei responsabili di uno dei più grandi e rapidi massacri della storia doveva restare segreta. Come oggi sui social, tutti si nascondevano dietro uno pseudonimo. L’occultamento protegge il crimine.
Il “fratello numero uno”, Pol Pot, annunciò: “Comincia l’Anno Zero. Il passato non esiste più”. Furono bruciati i libri, abolite le scuole, distrutte automobili, attrezzature mediche, elettrodomestici. Gli “uomini nuovi”, educati a “uccidere dieci innocenti piuttosto che lasciar scappare un solo colpevole”, eliminarono la proprietà privata e instillarono la fobia delle città e dei cittadini. Spinti dal desiderio di sradicare ogni individualismo e sentimento personale, distrussero l’idea stessa di famiglia. Le parole “io” e “mio” furono bandite.
La Cambogia comunarda durerà tre anni, otto mesi e venti giorni: 1,7 milioni di morti, uccisi direttamente dal regime o indirettamente dalla fame, dalla malattia e dagli stenti. Ma per un pezzo di sinistra in occidente, Pol Pot non era un fanatico sanguinario che fece fuori un quinto della popolazione cambogiana, ma un astro nascente del marxismo.
Molti intellettuali italiani li consideravano avanguardie della rivoluzione indocinese contro gli “imperialisti americani”. “Tre anni fa la Cambogia era un paese in pace, in cui le risaie producevano abbastanza da sfamare tutti e dove non sono mai esistiti i mendicanti o i miliardari” scrisse Tiziano Terzani sull’Espresso. “Gli americani lo hanno coinvolto nella guerra indocinese e così facendo hanno accelerato il suo processo di radicalizzazione. Con il loro intervento, almeno in Cambogia dove il problema non si poneva, sembra abbiano reso inevitabile proprio la presa di potere da parte delle forze progressiste”. I Khmer progressisti. E ancora: “‘Un vero genocidio’ dicono i rifugiati. Le prove? Decisive, inconfutabili, nessuna. Anzi, ogni documento che dovrebbe avallare le storie dei massacri è così poco credibile da far pensare che il tutto sia un’abile montatura”. E ancora: “L’evacuazione della capitale fu una misura radicale, draconiana. Fu applicata con durezza, in alcuni casi forse anche con crudeltà; ma fu, vista in prospettiva, una misura necessaria. Il lavoro più o meno forzato dell’intera popolazione nei campi o alla ricostruzione di un intero sistema di irrigazione fu una decisione ugualmente dura, ma obbligata. I risultati si vedono già”.
Il quotidiano Libération intanto titolava: “Sette giorni di festa per una liberazione”. Nel settembre 1975, cinque mesi dopo la “liberazione”, il giornale di Jean-Paul Sartre parlò del film di propaganda “Un popolo eroico”, distribuito da una delegazione dei Khmer rossi in Francia: “Le risaie verdi non sono di cartone e le risate e i canti dei contadini ben nutriti non sono forzati… Si tratta di una prima risposta alle ‘testimonianze’ che descrivono un campo di concentramento e un universo miserabile, di cui una certa stampa ama parlare”. Ci vorranno due anni perché il giornale dicesse la verità.
“Ricordo i coniugi Steinbach, intellettuali comunisti che lavoravano per il governo francese. Erano felicissimi travestiti da Khmer rossi”
Ma era il tempo in cui “Parigi amava i Khmer rossi”. Inviato come sacerdote in Cambogia, François Ponchaud è stato uno dei primi a rivelare al mondo la portata dei crimini perpetrati dal regime comunista: “Ricordo i coniugi Steinbach, intellettuali comunisti puri e duri che lavoravano a Phnom Penh per il Ministero della Cooperazione francese. Erano felicissimi! Travestiti da Khmer rossi, con un berretto di Mao e un krama al collo, aspettavano i rivoluzionari all’università. Appena li hanno visti arrivare, hanno detto loro: ‘Siamo con voi, siamo vostri fratelli”.
Anche gli ecologisti francesi si entusiasmarono di Pol Pot. In un articolo intitolato “Maggio 75 in Cambogia” sulla Gueule Ouverte, il giornale ecologista, “Arthur” (il cui vero nome è Henri Montant) elogia i Khmer: “Che lezione da parte di questi contadini in stracci, rivoluzionari in calzoncini corti, questi contadini che deportano un’intera città in campagna in puro stile Alphonse Allais. Se c’è stato un massacro, è stato un massacro di simboli, un massacro dell’oggetto. Una rivolta radicale contro la società dei consumi, contro questo regno della spazzatura dove la merce regna sovrana. Questo è il vero sacrilegio per una mente occidentale (borghese o no)”. E non soltanto in Francia. L’Ecologist, rivista fondata dal pioniere Teddy Goldsmith, nel luglio 1975 titolava “La città è morta”. Robert Allen, vicedirettore della rivista, si entusiasma per la rivoluzione: “L’abbandono dell’economia urbana da parte della Cambogia è di particolare interesse per noi. Sembra che stiano facendo del loro meglio per impedire che il parassitismo urbano si ripeta. Chiudono fabbriche, distruggono l’approvvigionamento idrico urbano, demoliscono le banche, bruciano tutta la carta moneta su cui riescono a mettere le mani”. Per il direttore dell’Ecologist, “meritano i nostri migliori auguri e la nostra simpatia”.
Dai marxisti scozzesi agli svedesi guidati dal figlio dei premi Nobel Alva e Gunnar Myrdal, i padri del welfare scandinavo
Il libro del 1977 “Cambodge Année Zéro” (tradotto anche in inglese) di Ponchaud fu attaccato dalla sinistra accademica. Noam Chomsky, l’icona più formidabile dell’intellighenzia progressista, definì il libro un “opuscolo propagandistico di terz’ordine”. Lo studioso marxista scozzese Malcolm Caldwell disse che l’esperimento comunista in Cambogia rappresentava la “promessa di un futuro migliore per tutti”. Caldwell era un accademico della School of Oriental and African Studies della London University. Era un attivista e un sostenitore di qualsiasi cosiddetto “movimento di liberazione nazionale” e dei relativi regimi, che si dimostravano sempre più amanti del potere che della libertà. Era anche un fan del comunismo asiatico: tra i suoi regimi preferiti c’era la Corea del Nord. Ma era anche un personaggio di spicco nel piccolo ruolo che spesso hanno gli agitatori accademici. Come i suoi colleghi, Caldwell liquidava le storie di rifugiati che testimoniavano gli orrori che si stavano svolgendo in Cambogia: “Non c’è da sorprendersi che all’inizio richiedessero una stretta supervisione quando venivano messi a lavorare a spalare la terra e a raccogliere massi; dovremmo tenerlo presente quando valutiamo le storie di rifugiati, in particolare quelle che si riferiscono al periodo immediatamente successivo alla liberazione”. Quanto ai resoconti di uccisioni di massa, Caldwell citò le smentite del ministro dell’Informazione, Hu Nim, come prova principale. Hu Nim sarebbe stato torturato e ucciso a sua volta nella prigione di Tuol Sleng durante una purga del partito.
Nel dicembre del 1978, Pol Pot invitò Caldwell e altri due giornalisti occidentali a partecipare a un tour della Cambogia. Ma il tour si rivelò confezionato con cura. Ai giornalisti non fu permesso di viaggiare dove desideravano e fu loro proibito di parlare con i cambogiani. Dopo due settimane nel paese, Caldwell fu convocato per parlare faccia a faccia con Pol Pot. Poche ore dopo fu ucciso nella sua stanza d’albergo. Elizabeth Becker, con lui nel viaggio, in seguito affermò che “la morte di Caldwell fu causata dalla follia del regime che ammirava apertamente”. Una fotografia lo ritrae nel libro “When the War Was Over: The Voices of Cambodia’s Revolution and Its People” di Becker, pubblicato nel 1986 e da cui è appena stato tratto un film di Rithy Panh, “Meeting with Pol Pot”. Becker mostra Caldwell con i capelli arruffati e il pizzetto da intellettuale, sorridente accanto al numero due del regime, Ieng Sary, ministro degli Esteri e cognato di Pol Pot. Un vecchio detto dice che non c’è peggior cieco di chi non voglia vedere.
Nell’aprile del 1978, un gruppo di quattro americani visitò il paese. C’erano Robert Brown, David Klein e il direttore della rivista comunista The Call, Daniel Burstein, il quale ne fu così colpito che scrisse un articolo per il New York Times in cui definiva calunniose menzogne le storie degli orrori. “Sono stato il primo americano a visitare la Kampuchea dal 17 aprile 1975. Ciò che ho visto ha poco in comune con le storie raccontate da tanti giornalisti e altre ‘autorità’ che non ci sono mai stati”.
Ad agosto anche una delegazione svedese arrivò a Phnom Penh e vide giardini fioriti dove c’erano campi di scheletri. A guidare la delegazione c’era Jan Myrdal, uno dei più influenti intellettuali svedesi del tempo, figlio dei premi Nobel Alva e Gunnar Myrdal, i padri del welfare scandinavo.
Il famoso professore di linguistica del Mit Chomsky, scrivendo degli eventi in Cambogia con Edward Herman, accusò i media e gli studiosi americani che riportavano le uccisioni di produrre propaganda. Tra i più importanti difensori dei Khmer rossi ci furono George Hildebrand e Gareth Porter, studiosi e attivisti noti per la loro opposizione alla guerra del Vietnam. Nel loro libro, “Cambogia: Fame e Rivoluzione”, pubblicato un anno dopo l’ascesa al potere dei Khmer, Porter e Hildebrand difesero l’evacuazione forzata delle città come un tentativo di avvicinare la popolazione alle fonti di cibo e lo svuotamento degli ospedali come un tentativo di migliorare l’assistenza sanitaria. Le critiche ai Khmer in materia di diritti umani furono liquidate come i soliti attacchi che la stampa capitalista avrebbe lanciato contro un regime socialista. In una testimonianza al Congresso del 1977, Porter affermò nuovamente che c’erano scarse prove a sostegno delle accuse di atrocità in Cambogia e presentò una visione positiva della vita sotto i Khmer. Cinquant’anni dopo troveremo Porter a Teheran.
Mentre il mondo scopriva la portata del crimine di Pol Pot, un filosofo sul Monde scriveva: “La Kampuchea vincerà!”
In “L’eliminazione”, il libro dedicato al genocidio di Pol Pot (Feltrinelli), il regista Panh cita un articolo di Alain Badiou, il filosofo di Parigi, pubblicato sul Monde il 17 gennaio 1979. Mentre il mondo scopriva, inorridito, la portata del crimine comunista, il filosofo denunciava una “campagna anti-cambogiana”. Il titolo è clamoroso: “La Kampuchea vincerà!”. Qualche anno fa, all’Express, Badiou espresse il suo rammarico: “Al di là del fatto che mi pento di aver scritto questo testo, mi interessa la domanda sul perché l’ho scritto. L’ho scritto perché ero emozionato per la vittoria dei Khmer rossi nel 1975. Non ero l’unico. Rileggete le prime pagine del Monde di quel periodo”.
Nel 1980 in “After the cataclysm”, Chomsky imperterrito scrisse: “Di fatto, in occidente, si è praticamente imposta, come un dogma, l’idea che il regime (Khmer rossi) fosse l’incarnazione stessa del male, senza alcuna qualità che potesse salvarlo; e che le poche creature demoniache che erano in qualche modo riuscite a impossessarsi del paese massacravano e affamavano il popolo. Come ‘i nove uomini del Centro’ abbiano potuto realizzare questo progetto, o perché abbiano scelto la strana strada dell’‘autogenocidio’, sono domande che non vengono approfondite spesso”.
E quando la verità divenne inconfutabile, anche un giovane Lionel Jospin salvò il suo onore pubblicando “I socialisti e la Cambogia” sul Monde, in cui invitava a credere ai rifugiati e chiedeva: “Dove i campi di concentramento hanno mai creato un uomo nuovo?”.
Lo storico Robert Conquest è stato uno dei primi (e a lungo dei pochi) a documentare la portata dei crimini perpetrati in Unione Sovietica e per questo oggetto di disprezzo negli ambienti accademici e intellettuali occidentali (Garzanti acquistò, tradusse e poi cestinò il suo libro sull’Holodomor ucraino). Quando gli archivi sovietici furono aperti, a Conquest fu offerta la riedizione delle sue opere in una prestigiosa collezione. Quando gli chiesero quale titolo volesse, Conquest rispose: “Ve l’avevo detto, idioti”.