Se cerchiamo la vita non con gli occhi ma con i modelli

Una ricerca che grazie all’AI non dipende più solo dalla nostra esperienza. Che cosa direbbero Dick e Borges

Un giorno lo avremmo detto. Forse. Con cautela, con tremore, con parole complicate come “dimetilsolfuro” e “biosignature”, magari. Ma lo avremmo detto: ci sono molecole là fuori, in un altro mondo, che sulla Terra esistono solo dove c’è vita.

E infatti oggi è arrivato quel giorno. O almeno qualcosa che gli assomiglia maledettamente. Un gruppo di astronomi dell’Università di Cambridge ha rilevato nell’atmosfera di un pianeta lontano 124 anni luce, K2-18b, una concentrazione insolitamente alta di due composti, il dimetilsolfuro (Dms) e il dimetildisolfuro (Dmds). Qui sulla Terra li produce solo la vita, per la precisione il fitoplancton. Non è una prova, è un segnale. Ma è il segnale più forte che l’umanità abbia mai ricevuto da un mondo diverso dal nostro, una specie di telegramma biochimico dal cosmo che dice: “qualcosa di vivo potrebbe essere qui”.

Chi se lo aspettava così? Nessuna astronave che atterra, nessun alieno verde, nessuna base su Marte. Solo un calo improvviso nella luce stellare registrato da un telescopio e analizzato da una rete neurale addestrata a riconoscere la vita senza mai averla vista. Il James Webb Space Telescope, macchina prodigiosa e collaborazione tra Nasa, Esa e Canada, ha raccolto uno spettro. E quello spettro è stato interpretato da un’intelligenza artificiale. In fondo la vita, oggi, la stiamo cercando così: non con gli occhi, ma con i modelli.

La scoperta non è un annuncio, è un processo. I ricercatori parlano con prudenza, come si conviene a chi maneggia qualcosa che ha il potenziale di riscrivere la storia naturale. “Tre sigma” di significatività statistica: uno 0,3 per cento di probabilità che il dato sia casuale. Ne servono cinque per cantare vittoria. Ma bastano tre per cominciare a fare filosofia.

Cosa intendiamo, oggi, per “essere vivente”? La domanda non è solo scientifica, è culturale, linguistica, esistenziale. E qui entra in gioco proprio lei, l’intelligenza artificiale. Chi meglio di un sistema che produce testi, disegni, logiche e previsioni senza mai avere corpo, senza nascere, senza respirare, può aiutarci a concepire l’idea di un’intelligenza o di una vita che non somigli affatto a noi? Se un algoritmo può sembrare vivo, magari anche un essere che vive di idrogeno e produce gas sulfurei potrebbe esserlo. Philip K. Dick, che in questo genere di dilemmi ha sguazzato per tutta la carriera, avrebbe fatto notare che la difficoltà non sta nel riconoscere un alieno, ma nel riconoscere noi stessi quando non siamo più il centro. Stanislaw Lem, in “Solaris”, ci ha raccontato di come l’incontro con l’altro assoluto possa trasformarsi in frustrazione cognitiva. E Borges, se fosse qui, direbbe che oggi abbiamo trovato un nuovo Aleph, un punto dello spazio che contiene tutte le domande. Ma non ancora le risposte.

Per decenni, la ricerca della vita altrove è stata guidata dalla logica del “messaggio”: aspettavamo un segnale, una frequenza, un codice. Oggi, invece, il segnale non è intenzionale. Non è comunicazione, è composizione chimica. Non ci stanno parlando, ma noi li stiamo forse ascoltando per la prima volta nel modo giusto. La tecnologia ci ha permesso di percepire qualcosa che fino a pochi anni fa sarebbe stato indistinguibile dal rumore di fondo.

K2-18b è un mondo strano, più grande della Terra, più pesante, probabilmente coperto da un oceano profondo e avvolto in un’atmosfera di idrogeno. I ricercatori lo hanno chiamato “Hycean”: idrogeno più oceano. Un concetto nuovo, una categoria a metà tra la scienza e la poesia. In questo mare alieno potrebbero nuotare forme di vita del tutto sconosciute, ma affini nel loro funzionamento biochimico a quelle che popolano i nostri mari. Una forma di evoluzione convergente interstellare? O una coincidenza ancora inspiegabile? Forse non importa. Forse l’evento davvero rivoluzionario non è aver trovato la vita, ma aver trovato un modo per cercarla che non dipenda più dalla nostra esperienza. Se un tempo si diceva che la vita è ciò che pulsa, ora potremmo dire che è ciò che lascia tracce spettroscopiche. L’umanità ha cambiato strumento, e nello stesso gesto ha cambiato definizione.

Certo, lo scetticismo resta fondamentale. Come dicono gli stessi scienziati coinvolti, bisogna essere i primi a mettere in discussione le proprie scoperte. Ma non possiamo negare che qualcosa sia accaduto. Un telescopio ha guardato una stella, un pianeta le è passato davanti, e nel modo in cui quella luce è cambiata si è rivelato un segreto. Non sappiamo ancora cosa significa, ma ora sappiamo che possiamo arrivarci.

Forse non sarà questa la scoperta definitiva. Forse ci vorranno anni, decenni, nuovi strumenti, nuove osservazioni. Ma abbiamo superato una soglia. Abbiamo cominciato a trattare la vita come una possibilità concreta, misurabile, interplanetaria. E in questo ci ha aiutato proprio lei, l’intelligenza artificiale, non più solo strumento di calcolo ma compagna di indagine epistemologica. L’universo non è più un silenzio, ma una serie di dati da interpretare. E se c’è una lezione che possiamo trarre da questo momento, è che la vita è meno una presenza e più una ipotesi. Una ipotesi fortissima, sempre più difficile da escludere. Il giorno in cui abbiamo cominciato a pensarla così potrebbe non avere fuochi d’artificio, ma merita una pagina di diario. O forse un racconto breve. Scritto da Calvino, letto da Sagan, immaginato da una rete neurale. Una storia che inizia con: “C’era una volta, su un altro pianeta, un segnale”.

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