Un romanziere per la libertà

Mario Vargas Llosa è stato un intellettuale del Novecento, con tutti i vezzi che ne derivano. Apparteneva alla repubblica delle lettere e faceva il suo dovere per esserne un buon cittadino, interessarsi di politica gli venne naturale. Sarebbe stato uno straordinario presidente del Perù, ma per fortuna non vinse: ci avrebbe privati di libri altrettanto straordinari



Per quanto ciascuno di noi abbia un qualche diritto su quel che ne dicono gli altri, e figurarsi le generazioni future, non c’è dubbio che Mario Vargas Llosa avrebbe voluto essere ricordato come un romanziere, e nient’altro. Gli aggettivi che lui per primo si appuntava al bavero – liberale, anticomunista, democratico – servono per descriverlo, per contrasto, rispetto a due generazioni di colleghi. Vargas Llosa, sbocciato nella Parigi degli anni Sessanta, era un intellettuale del Novecento. E dell’intellettuale aveva tutti i vezzi: amava moltissimo viaggiare, era in rapporti frequenti con altri scrittori, con pittori e artisti, ha scritto un libro contro la “cultura di massa”. Sentiva di appartenere alla repubblica delle lettere, i cui confini invisibili sovrastano quelli degli stati, e faceva quel che doveva per esserne un buon cittadino. “Non mi sono mai sentito straniero in Europa, né, a dire il vero, da nessuna parte”, disse nel discorso con cui accettò il Premio Nobel, nel 2010. Anche per questo, interessarsi di politica gli venne naturale, faceva parte del mestiere. Da ragazzo ciò significa iscriversi al Partito comunista peruviano nel 1953, quando comincia l’università. “Eravamo pochi, ma assolutamente settari, molto dogmatici, completamente stalinisti”. Sei anni dopo, la dittatura di Batista viene rovesciata e comincia la lunga ascesa di Fidel Castro.



Tutti o quasi gli autori che danno vita al cosiddetto “boom” della letteratura latinoamericana negli anni Sessanta e Settanta gravitano attorno a Cuba: da Alejo Carpentier, pronto a trasformarsi in funzionario del regime castrista, a Gabriel García Márquez. Fa eccezione il “precursore” Borges. Gli altri sono più o meno convinti di quanto dice, nel 1967, il poeta Octavio Paz (che sarà fra i primi, poi, a disingannarsi): “Cuba è un inizio, l’inizio di qualcosa che cambierà in modo decisivo i nostri popoli”. Come ha scritto Paul Hollander, sono anni nei quali l’Unione sovietica cominciava a essere vista come un’altra società “industriale”, una superpotenza impersonale come lo erano gli Stati Uniti. Un altro luogo nel quale la ricerca dell’autenticità, quella liberazione dalle incrostazioni borghesi che non era l’ultima delle richieste degli intellettuali al socialismo, era impossibile. “Si generava così il bisogno di abbracciare una nuova incarnazione rivoluzionaria dei loro desideri e delle loro speranze”. Nella seconda metà degli anni Sessanta, lo scrittore cubano Guillermo Cabrera Infante mette in guardia i colleghi contro gli esiti della rivoluzione – col che si rassegna a diventare “un appestato per gran parte della classe intellettuale dell’America Latina”. Nel 1968, Julio Cortázar, Juan Goytisolo e Carlos Fuentes preparano una lettera a Fidel sul “problema degli intellettuali a Cuba”. E’, commenta Xavi Ayén nel suo bel libro sugli scrittori del “boom”, un dissenso che si esprime rigorosamente in privato. Poi nel 1971 arriva il caso Padilla: il poeta Heberto Padilla viene messo in galera per le sue critiche al regime. Dopo un mese abbondante di carcere, viene rilasciato, ma non prima di avere fatto pubblica ammenda. La vicenda suscita l’indignazione generale e una lettera di vibrante protesta, stavolta pubblica, raggiunge Fidel Castro, la firma Vargas Llosa ma anche Sartre, Italo Calvino, Lucio Magri e Rossana Rossanda.



Per molti di loro, resta una deviazione di percorso sulla strada del socialismo. Per Vargas Llosa, no. “Mi tolsi un gran peso di dosso: non sarei più stato costretto a simulare un’adesione che non sentivo riguardo a quello che stava accadendo a Cuba”. Lo scrittore peruviano intraprende una strada che lo porta a riconoscere come “le ‘libertà formali’ della presunta democrazia borghese non erano una mera facciata che nascondeva lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, bensì lo spartiacque fra i diritti umani, la libertà di espressione, l’eterogeneità politica e un sistema autoritario e repressivo”. Vivendo in Inghilterra, apprezza la cura Thatcher, vede l’economia rifiorire e un paese ancora depresso dalla perdita dell’Impero riprendere slancio. Partecipa a una famosa cena organizzata dallo storico Hugh Thomas. A tavola ci sono anche V.S. Naipaul, Philip Larkin, V.S. Pritchett, Tom Stoppard, Isaiah Berlin. Ospite d’onore il primo ministro. “Margaret Thatcher mi domandò dove abitassi e, quando le dissi che vivevo in Montpelier Walk, commentò che ero un vicino di Arthur Koestler, che evidentemente aveva letto”. Pochi anni dopo, si appassiona ad alcune ricerche sull’economia informale in Perù. Gli slum brulicano di attività economica, che non riesce mai a trasformarsi in benessere. Il problema non risiede nell’assenza di capitale, ma nel fallimento del diritto, che non sa vedere e garantire le proprietà delle persone.


Alle convinzioni maturate allora, Vargas Llosa rimane fedele fino alla morte. Le nutre di letture, come dimostra “Il richiamo della tribù”, un saggio in cui presenta il suo pantheon di riferimento (da Adam Smith a Karl Popper) nella maniera la più romanzesca possibile: cioè raccontando di ciascun autore il pensiero ma anche la vita, per quanto i pensatori liberali glielo rendano difficile, avendo – con poche eccezioni – le biografie meno avventurose che ci si possa immaginare. “La politica è una delle forme del tedio”, diceva Borges. Vargas Llosa ci si trova invischiato e invece finisce per diventare il personaggio di una novella. Il presidente del Perù, Alan García Pérez, vuole nazionalizzare banche e assicurazioni. García (che morirà suicida, dopo un altro giro sulla giostra del potere, nel 2019) è gommoso come tutti i politici di talento, incontra lo scrittore, si lascia insultare o poco meno: “Perché, potendo essere il nostro Felipe González, giochi a fare Fidel Castro?”. All’annuncio delle imminenti nazionalizzazioni, Vargas Llosa comprende che, come avvenuto altre volte in passato, i proprietari saranno remunerati con “buoni” di dubbio valore e che il guaio più grosso non è che ci rimettano gli azionisti. Nel momento in cui il potere s’impossessa dell’allocazione del credito, può indirizzare come preferisce le attività economiche. E il peggio è che starà bene a tutti: “C’è qualcuno al mondo che ami i banchieri? Non sono il simbolo dell’opulenza, del capitalismo egoista, dell’imperialismo, di tutto ciò a cui l’ideologia terzomondista attribuisce il ritardo dei nostri paesi? Alan García aveva trovato il capro espiatorio ideale”. Scrive un articolo infuocato (“Verso il Perù totalitario”) e poi, con quattro amici (nessun economista: tre architetti e il pittore Fernando de Szyszlo), verga un manifesto contro “la concentrazione del potere politico ed economico nel partito al governo”. Pensano che saranno prediche inutili, invece “casa mia fu sommersa da lettere, telefonate e visite di persone che solidarizzavano con il manifesto”.



Nasce così il Movimiento Libertad, col quale Vargas Llosa correrà alle elezioni presidenziali, diventando un unicum nella storia: intellettuale in politica e campione del “neoliberalismo” (per gli italiani, “neoliberismo”). L’amico Octavio Paz lo scongiura di desistere (“sei il migliore dei nostri scrittori”), poi cambia idea (“un uomo è le sue convinzioni”), alla fine trova la quadra: “La cosa migliore, Mario, è che tu corra ma perda le elezioni”. Andrà così. Al primo turno, l’autore de “La città e i cani” è il favorito, tutti i riflettori sono per lui, la stampa internazionale segue la campagna elettorale come se si trattasse delle elezioni francesi, i titoli vengono facili, “romanziere destinato a diventare presidente”. La cosa non sembra poi così strana: l’anno precedente è toccato a un grande drammaturgo, Vaclav Havel, nella Cecoslovacchia post comunista. Invece piano piano spunta all’orizzonte un candidato ignoto non solo fuori ma anche dentro il Perù, un ingegnere agrario di famiglia giapponese, che arriva al secondo turno e riesce a far convergere su di sé il voto dei vecchi partiti e quello di chi, semplicemente, non si fida del sommo letterato, che al grosso pubblico è noto per essere uno che si è sposato prima la zia acquisita e poi la cugina. Fujimori poi farà il famoso “autogolpe”, Vargas Llosa riparerà in Spagna, pure la sua famiglia avrà problemi col regime, a cominciare dal figlio Alvaro, il vero sparring partner del Vargas Llosa politico. Nel 2021, a fatica sceglierà di dare il suo endorsement nella gara presidenziale alla figlia del vecchio nemico, Keiko, candidata contro Pedro Castillo Terrones, che vincerà le elezioni (per venire destituito l’anno dopo). Lo fece, per quanto gli costasse, perché quando aveva lasciato gli antichi compagni per abbracciare la democrazia non aveva pensato di cambiare un’utopia per l’altra. E quindi, a dispetto della retorica più trita, non bisogna sempre votare “per”, anzi è molto saggio votare “contro”, adoperarsi non per il Bene o per la Giustizia ma per il meno peggio.



Quel che Vargas Llosa pensava della politica si capisce bene dalla citazione di Max Weber che mise a esergo de “Il pesce nell’acqua”, il libro che sortisce dalla sua sconfitta e ne segna la restituzione alla scrittura e dunque a se stesso: “Anche i primi cristiani sapevano molto bene che il mondo è governato da demoni e che chi ha a che fare con la politica – vale a dire con il potere e con la violenza – stringe un patto con potenze diaboliche e che, per ciò che riguarda il suo agire, non è vero che dal bene può solo derivare il bene e dal male solo il male, ma spesso accade il contrario”. Il Movimiento Libertad ha perso ma ha piantato semi che germoglieranno, Vargas Llosa è diventato un riferimento per tutti i liberali del mondo hispanohablante, nei successivi quarant’anni si è speso con straordinaria generosità per la loro causa. E tuttavia aveva ragione Octavio Paz: per quanto straordinaria potesse essere una presidenza Vargas Llosa, ci avrebbe privato dei romanzi che è tornato a scrivere.



Più che nelle delusioni cubane o nella scoperta dell’economia di mercato, il liberalismo di Vargas Llosa nasce nella serra del romanzo. Nelle sue storie due temi riaffiorano spesso: il potere e l’utopia. Il padre abbandona lui e la madre poco dopo la sua nascita, gli dicono che è morto, anni dopo ritorna nel mondo dei vivi, si oppone alla sua vocazione di scrittore, lo manda in un collegio militare. Da quel contrasto viene la sua diffidenza per ogni potere. Vargas Llosa esalta sempre l’importanza della finzione, la letteratura è il dono di intravedere altre vite che non sono la nostra. Ma è anche una scuola dove apprendere quanto imperfetti e limitati sono gli esseri umani, le imperfezioni e le meschinità dei personaggi letterari sono lo specchio più comodo per scoprire le nostre. Il romanzo è anche la serra della tolleranza. Se non il più bello (aggettivo che si potrebbe tranquillamente attribuire a due libri che qualcuno liquiderebbe come “leggeri”, “La zia Julia e lo scribacchino” e “Avventure della ragazza cattiva”), il più ambizioso dei romanzi di Vargas Llosa è “La guerra della fine del mondo”. Romanzo storico e monumentale sulla rivolta di Canudos, nel nord-est del Brasile. Ma anche sul populismo come rivolta contro una modernizzazione imposta dall’alto. Galileo Gall, rivoluzionario scozzese capitato per caso in terra brasiliana, va a Canudos convinto di trovarci la sua utopia realizzata, non capendo nulla delle passioni che muovono ciò che sta capitando.


Non s’è mai sentito straniero da nessuna parte, Vargas Llosa, perché ha provato a capire anche chi gli era più lontano. Ha dovuto farlo, perché quello era il mestiere che s’era scelto, ed è un mestiere che richiede sia di partecipare visceralmente alla vita dell’altro, sia una certa distanza, per essere fatto bene. Madame Bovary sono io, per citare l’amato Flaubert, ma la vedo anche come non si vedrebbe mai. Il grande romanziere, in questo, fa ciò che il pensatore politico dovrebbe fare e troppo spesso proprio non riesce a fare, preso com’è dall’entusiasmo di un’idea. Le idee tendono a farti dimenticare il poco che sai su come sono fatti gli esseri umani. L’ultimo dei ritratti de “Il richiamo della tribù” è quello di Jean-François Revel, che per Vargas Llosa è “un Albert Camus o un George Orwell dei nostri tempi”. Le parole con cui si chiude sono queste: “La morte di Revel ha aperto in Francia un vuoto intellettuale che, per il momento, nessuno ha colmato. Ha privato la cultura liberale di uno dei suoi più talentuosi e agguerriti combattenti e ha lasciato nei suoi ammiratori e nei suoi amici una spaventosa sensazione di abbandono”. Si potrebbe dire che Vargas Llosa è uno scrittore di grandezza enormemente superiore a Revel, a buona parte dei narratori del Novecento e a tutti o quasi coloro che trafficano con la politica e le idee sociali. E quindi il vuoto che lascia dovrebbe essere tanto più grande. Forse no. Forse la forza della sua opera è tale da riempirlo, quel vuoto. I cimiteri sono pieni di gente che ha provato a cambiare il mondo e gli uomini. Chi sa raccontarli non muore mai.

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