Riascoltare “Mosca-Odessa” di Vladimir Semënovicč Vysockij e “Odessa” dei Bee Gees
Sto arrivando a Odessa, per Pasqua. In Ucraina le feste comandate prendono un senso. Non si vola a Odessa, né altrove: si vola a Chisinau, poi per strada. C’è una canzone di Vysotsky, si intitola Mosca-Odessa. Conoscete Vysockij, spero, Vladimir Semënovicč Vysockij. Il cantautore, il poeta, l’attore, il ragazzo di Marina Vlady. Mezzo ebreo, tutto dissidente, arrabbiato, alcolista, tossico, premio Tenco postumo, l’unico. Nel 1980 morì, a Mosca dov’era nato 42 anni prima, la notizia fu taciuta, al suo funerale erano centinaia di migliaia. Dice, più o meno, la canzone: “Ogni volta che prendo il volo Mosca-Odessa, di nuovo non lo lasciano decollare. Ma ecco che arriva l’hostess, tutta in blu come una principessa. Affidabile, come l’intera flotta aerea civile. Sopra Murmansk – né cumuli né nuvole cariche di pioggia. E i voli sono aperti per Ashkhabad. Kyiv, Kharkov, Kishinev, e Leopoli è aperta – ma io non ci devo andare! Mi hanno detto: “Per oggi non sperarci proprio”. E di nuovo stanno ritardando il volo per Odessa: ora c’è ghiaccio sulla pista. Ma se a Leningrado i tetti gocciolano! E perché non ho volato a Leningrado?! A Tbilisi – lì è tutto chiaro, fa caldo, ci cresce il tè, ma non è lì che devo andare! Sento che su Rostov stanno volando. Ma io devo andare a Odessa, subito! Devo andare lì, e lì sono chiusi da tre giorni. E ancora ritardano il volo. Dovunque sia tutto chiaro e luminoso – è bello, ma non ci devo andare! Qui non decollano, là non atterrano, che ingiustizia. La hostess annoiata invita all’imbarco. Accessibile, come l’intera flotta aerea civile. Hanno aperto l’angolo più remoto, il porto chiuso di Vladivostok è aperto, Parigi è aperta, ma non ci devo andare! Decolliamo, si schiarirà – ora stanno eliminando i divieti di volo! L’aereo sobbalza, sento l’acuto delle turbine… Ma ancora non mi fido – non mi prenderanno. Di nuovo troveranno un sacco di scuse. Hanno aperto Londra, Delhi, Magadan. Hanno aperto tutto, ma io non ci devo andare! Avevo ragione, non so se ridere o piangere, di nuovo c’è un ritardo del volo. E ci stanno riportando indietro. Ben costruita, come un Tupolev, quella hostess Miss Odessa. Assomiglia all’intera flotta aerea civile. Di nuovo un ritardo, otto ore. E i cittadini diligenti si mettono a dormire… Al diavolo, mi sono rotto, volerò dove mi fanno atterrare!”.
Non so se ho capito bene la situazione. Forse Odessa sta per un’altra città, in Europa, e l’Odessa vietata ha a che fare con gli ostacoli ridicoli opposti ai cittadini russi desiderosi di andare all’estero. In un caso Odessa è la meta, nell’altro è un miraggio. Una Morgana. C’è un’altra canzone, si intitola “Odessa”, è dei Bee Gees – non vi chiedo se conoscete i Bee Gees. Del resto anch’io ho saputo da poco (me l’ha detto Luca) che sono fratelli. Il minore, Andy, morì nel 1988 per le stesse ragioni di Vysocky, allo stesso modo. “Odessa” uscì nel 1969, e diede il nome all’intero doppio album, il loro unico. E’ molto bella, ambiziosa, lunga 7 minuti e mezzo. “Il tentativo di un’opera rock”, la chiamò Barry Gibb. Avevano vent’anni. Racconta una storia di amore e naufragio, una nave andata a fondo e un superstite. Dice, in una traduzione che prendo in prestito da “Infinititesti”: “Quattordici Febbraio, milleottocentonovantanove / la nave britannica Veronica sparì senza un segnale / bee bee pecora nera, non hai più lana / il Capitano Richardson ha lasciato una moglie sola a Hull / Cherub, ho perso una nave nel Mar Baltico / sto su un iceberg che vaga senza controllo / ci sto seduto, e lo rifilo a forma di nave / navigo sulla via del ritorno alle tue labbra / una nave di passaggio ha passato parola / che ti sei trasferita dal vecchio appartamento / ami il Vicario più di quanto si possa dire a parole / digli di pregare che io non mi disperda / e che torni a vederti. / Odessa, quanto sono forte? / Odessa, come passa il tempo / Tesoro, conosci i vicini della porta accanto / non hanno più il loro cane / gelo mentre navigo nell’Atlantico del Nord / non riesco più a lasciare questo mare / non riesco proprio a capire / perché ti sei trasferita in Finlandia / ami il Vicario più di quanto si possa dire a parole / chiedigli di pregare che io non mi disperda / e che torni a vederti / Odessa, quanto sono forte? / Odessa, come passa il tempo”.
L’ispirazione era venuta da naufragi di navi vere o immaginarie. E il titolo originario era: “Odessa (sul Mar Bianco)”. Il giorno, 14 febbraio, era quello di san Valentino. Il titolo poi diventò: “Odessa (città sul Mar Nero)”. Il nome di Odessa era stato letto da Robin, autore del testo e voce, su un opuscolo di viaggio. Un’altra volta della città favolosa e fantastica. Di quelle che non si bombardano, a differenza della vera. Odessa mamà.