Il presidente di El Salvador si è confermato un prezioso alleato della Casa Bianca nella lotta contro migranti e criminalità. La storia di Kilmar Abrego Garcia, il cui destino è sempre più incerto, è emblematica
Ieri il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, è stato accolto alla Casa Bianca con grandi elogi, e si è confermato un prezioso alleato per Trump nella lotta senza scrupoli contro l’immigrazione e la criminalità organizzata. E’ stato Bukele ad avviare la prassi degli arresti indiscriminati contro chiunque sia solo sospettato di operare in gang criminali, appellandosi a uno stato di emergenza dichiarato nel 2022. E’ stato Bukele a inaugurare il Cecot, il carcere di massima sicurezza divenuto simbolo della lotta ai gruppi criminali, ma anche dei trattamenti disumani, che rappresentano ormai la cifra del “dittatore più cool del mondo”, come si è autodefinito anni fa. Che è stato molto felice di aver accolto, lo scorso marzo, i 238 venezuelani – e non solo – deportati da Trump, mentre andava in scena un braccio di ferro con il giudice Boasberg, che voleva fermarne i voli di espulsione: la risposta di Bukele, una volta atterrati gli uomini, è stata su X: “Oops… too late”
L’incontro allo Studio Ovale è parso fruttuoso per i due leader: Trump ha apprezzato l’ottimo lavoro svolto da Bukele e l’ha invitato a costruire più carceri in cui deportare più migranti – non solo migranti, in realtà, ora il trattamento potrebbe essere riservato anche a cittadini americani sospettati di far parte o di collaborare con gang criminali. Lo è stato decisamente meno per le sorti di una delle vittime delle espulsioni di massa per cui Trump e Bukele festeggiano: Kilmar Abrego Garcia, che prima di essere deportato a El Salvador “per un errore amministrativo”, ammesso dalla stessa Casa Bianca, risiedeva nel Maryland – nel 2019 gli era stata concessa una sospensione dall’espulsione, perché ritenuto vittima di minacce proprio dalla criminalità salvadoregna (ora condivide la cella con gli uomini che lo minacciavano, forse) – ed è stato accusato, senza prove, di far parte della gang MS-13.
La scorsa settimana ne hanno sollecitato il rientro negli Stati Uniti sia Paula Xinis, giudice distrettuale del Maryland, che ha ordinato all’Amministrazione di mettere in campo ogni strumento possibile per agevolare il ritorno di Abrego Garcia, sia la Corte Suprema, attraverso un parere della giudice Sotomayor, che ha richiesto al governo di facilitare il suo rilascio e di assicurare che il suo caso venisse trattato come se non fosse stato vittima di un ordine di espulsione in un paese straniero. Ma il dipartimento di Giustizia aveva già chiarito, domenica scorsa, che il governo federale non è tenuto ad adoperarsi per il rimpatrio, dando un’interpretazione minima al verbo “facilitare” utilizzato dalla Corte suprema: secondo il dipartimento la Casa Bianca può al massimo provvedere a una modifica dello status di Garcia per poterlo riammettere su suolo statunitense, e dunque agire esclusivamente su un fronte interno, mentre spetterebbe allo stato straniero in cui si trova ora l’ordine di rilasciarlo.
Passata la palla a El Salvador, Bukele ha deciso di liberarsene: ieri a Kaitlan Collins della Cnn, che gli ha domandato se avesse intenzione di rilasciare Abrego Garcia, il presidente di El Salvador ha risposto che la domanda era assurda (“preposterous”), e che ovviamente non permetterà di far rientrare clandestinamente un terrorista negli Stati Uniti. Trump non ha contestato, sebbene giorni fa si fosse detto pronto a dar seguito alla decisione della Corte suprema, che “rispetta molto”.