Come si farà “United 2026” in Canada, Messico e Stati Uniti, ora che Trump ha rotto tutto con i suoi dazi? Era la giusta idea per mandare un segnale di distensione, ma le tensioni hanno incrinato troppo le relazioni fra i tre paesi e messo a rischio la cooperazione necessaria per l’evento
Sembrava una bella idea quando fu presentata durante la prima Amministrazione Trump: un Mondiale di calcio del Nord America, ospitato congiuntamente da Stati Uniti, Canada e Messico per dimostrare l’unità e la collaborazione tra le tre potenze del continente. Era il 2017, alla Casa Bianca era arrivato da poco Donald Trump e aveva già creato tensioni fra i tre paesi, imponendo una prima versione di una sua antica fissazione: i dazi. La Coppa del Mondo era l’idea giusta per mandare un segnale di distensione e la candidatura era fortissima. Quando nel 2018 la Fifa si riunì per votare a Mosca, in una Russia che ancora non era isolata dal mondo, il compito di ospitare il mondiale 2026 fu conquistato in modo travolgente dai tre paesi nordamericani. “United 2026” era il nome dell’idea diventata realtà. Adesso però manca poco più di un anno al calcio di inizio, le tre nazioni coinvolte sono in pieno divorzio e non si sopportano più. C’entra sempre Trump, di nuovo alla Casa Bianca, e c’entrano ancora i dazi, che nel 2017 erano un’iniziativa bizzarra e improvvisata che non andò molto lontano, ma stavolta sono una cosa seria e drammatica. Il Canada e il Messico sono stati, insieme alla Cina, i primi due bersagli scelti da Trump in queste settimane nella sua guerra commerciale globale. Il clima fra i tre big del nord America ne ha risentito pesantemente, i rapporti sono pessimi e ora c’è da fare i conti con l’esigenza di collaborare per convincere il resto del mondo a venire in visita l’anno prossimo alle sedici città che ospiteranno i Mondiali: undici negli Stati Uniti, due in Canada e tre in Messico. Il calcio d’inizio lo daranno i messicani allo stadio Azteca l’11 giugno 2026, mentre la finale sarà il 19 luglio al MetLife Stadium in New Jersey, a due passi da New York. Nel mezzo, il 4 luglio, gli Stati Uniti festeggeranno i loro 250 anni di storia: per le celebrazioni dei due secoli e mezzo dalla firma della Dichiarazione d’Indipendenza sono previste iniziative spettacolari in tutto il paese.
Come programma basterebbe senz’altro per garantire un grande afflusso di pubblico da tutto il mondo. Ma le prime settimane della seconda Amministrazione Trump hanno gelato gli entusiasmi e creato enorme preoccupazione tra gli organizzatori. Si entra nell’anno finale dei preparativi in un clima di tensione fortissimo, con il Canada che ha definito “ufficialmente finita” la storica amicizia e alleanza con il vicino di casa e il Messico che si sta attrezzando per difendersi dalle manovre commerciali protezioniste della Casa Bianca. Trump mostra la solita sfacciata sicurezza e non sembra preoccuparsi della crisi nordamericana. “Le tensioni sono una cosa buona, penso che serviranno a rendere tutto ancora più entusiasmante”, ha commentato ricevendo nello Studio ovale il capo mondiale della Fifa, Gianni Infantino, venuto a portargli un aggiornamento sui preparativi per i Mondiali. Infantino, che è un ottimo amico e sostenitore di Trump, a sua volta ostenta la massima tranquillità sull’esito dell’evento sportivo più importante del prossimo anno.
La competizione del calcio planetario tornerà negli Stati Uniti per la seconda volta dopo il precedente dei Mondiali del 1994, quando il “soccer” era ancora uno sport secondario e praticato solo dagli immigrati, senza un reale peso nel paese: fu la Coppa che gli italiani ricordano soprattutto per il rigore sbagliato da Roberto Baggio nella finale di Pasadena. Per il Canada sarà invece la prima volta, mentre per il Messico è addirittura la terza. C’è grande attesa per il torneo gestito insolitamente insieme dai tre paesi, ma queste settimane hanno raffreddato molti entusiasmi, soprattutto in Canada. A Ottawa c’è voglia di rottura con Washington. Le ripetute battute di Trump sul Canada come “cinquantunesimo stato degli Stati Uniti” hanno creato irritazione nei solitamente miti canadesi e le tariffe al 25 per cento hanno fatto il resto. “L’antica relazione che abbiamo avuto con gli Stati Uniti – ha detto il primo ministro Mark Carney –, che era basata sulla profonda integrazione tra le nostre economie e sulla stretta cooperazione di sicurezza e militare, è finita”. “Siamo gente appassionata e che sa difendersi – ha affermato Peter Montopoli, che guida l’organizzazione dei Mondiali di calcio in Canada. Ci sono dei momenti in cui non dobbiamo essere necessariamente i ‘buoni canadesi’, sappiamo tenere i gomiti alzati”. Un’espressione, quella dei gomiti, che viene dal mondo dell’hockey su ghiaccio, lo sport nazionale canadese, e che adesso viene ripetuta sempre più spesso quando si parla degli americani. A febbraio i canadesi ne hanno dato una prova a Montreal, durante un match di hockey tra le nazionali di Canada e Stati Uniti: non sono solo volate gomitate in campo, ma anche fischi dagli spalti al momento di intonare l’inno nazionale americano.
Che non sia solo una faccenda di cattivi rapporti fra i due governi, ma qualcosa che tocca ormai l’opinione pubblica, lo dimostra il crollo del turismo dal nord verso l’America che si è già verificato in queste settimane. I canadesi sono da sempre i più frequenti visitatori dei vicini di casa, ma gli operatori turistici a Montreal e Toronto hanno già registrato un calo del 60-70 per cento delle prenotazioni per gli Stati Uniti. L’estate si preannuncia con perdite enormi per gli stati americani del nord che sono abituati a un flusso continuo di turisti canadesi. Il Canada si sente profondamente tradito dagli Stati Uniti e con Carney ha cominciato un riposizionamento geopolitico che parte dall’antico legame con le potenze coloniali che lo hanno “inventato”, Francia e Gran Bretagna, e in generale guarda all’Europa. “Abbiamo combattuto al vostro fianco in tutto il mondo per oltre un secolo – è il messaggio dei canadesi agli americani – e ora ci trattate come un paese ostile: adesso basta”. Più che il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti, come lo vorrebbe Trump, il Canada si sente oggi il ventottesimo stato dall’Ue e sta cercando di dar vita anche all’interno della Nato a un asse con gli europei che metta Washington in una posizione di secondo piano.
Se i canadesi mandano segnali di rottura ai vicini di casa, diversa è la reazione del Messico, dove la presidente Claudia Sheinbaum è convinta di poter far ragionare Trump e forzarlo a ritirare i dazi. Dai tempi della creazione del trattato Nafta (North American Free Trade Agreement) – che nacque nel 1994, l’anno del primo Mondiali di calcio negli Stati Uniti – il Messico è diventato una superpotenza automobilistica per effetto dello spostamento delle produzioni americane oltre il confine sud e oggi non è per niente semplice per realtà come General Motors o Ford trovare alternative ai loro stabilimenti messicani. E’ anche per questo che il governo di Città del Messico per ora ha mandato segnali meno bellicosi a Trump di quanto non abbia fatto Carney e punta sulla trattativa. Ma anche a sud del Rio Grande c’è forte preoccupazione sull’organizzazione collettiva dei Mondiali del prossimo anno, perché le tensioni commerciali attuali e le minacciate restrizioni sull’immigrazione e sui movimenti potrebbero mettere in crisi il progetto.
Di ritirarsi e lasciare l’anno prossimo da soli gli americani per ora non sembra si parli né a nord, né a sud degli Stati Uniti. Ma tra gli osservatori c’è chi non lo esclude e non lo vede comunque come un problema fatale per i Mondiali. E’ il caso di Alan Rothenberg, figura storica del calcio statunitense e organizzatore della Coppa del mondo del 1994. “Da un punto di vista organizzativo – ha detto al Washington Post – se il Canada o il Messico si ritirassero, gli Stati Uniti sarebbero in grado di prendere in mano tutto in un attimo”. Per Rothenberg non c’è neppure un pericolo di fallimento dei Mondiali nonostante le tensioni del momento, “perché gli appassionati di calcio non si lasciano scoraggiare dai problemi dei governi e l’anno prossimo verranno in massa”. Quel che è certo è che il continuo ricorso di Trump a infliggere dazi che lui chiama “reciproci” e punitivi, potrebbe spingere uno degli altri paesi del Nord America a utilizzare i Mondiali come strumento di boicottaggio, facendo definitivamente saltare l’accordo che era stato all’origine del progetto “United 2026”. Del resto Trump non sta facendo niente per rassicurare gli sponsor della competizione, gli operatori turistici che devono vendere i pacchetti-viaggio e le organizzazioni sportive coinvolte. Le continue tensioni sull’immigrazione e il blocco dei visti attuato in queste settimane per molti studenti internazionali non incoraggiano l’idea di un Mondiale giocato in tre paesi, con la conseguente necessità di entrare e uscire dagli Stati Uniti che Trump sta blindando. Basta un tatuaggio mal interpretato dalla polizia di frontiera sul bicipite di un calciatore sudamericano, per vedersi respinti dall’immigrazione (rischiando anche qualche giorno di cella).
Ad osservare con preoccupazione i Mondiali del Nord America è anche la California, che è alle prese con un’altra sfida sportiva. Nel 2028 Los Angeles ospita le Olimpiadi, gli organizzatori sono nel pieno della caccia agli sponsor e stanno avviando le opere infrastrutturali necessarie. Ma lo stato sul Pacifico è in crisi dal punto di vista economico e certamente non gode di grande stima da parte della Casa Bianca, che considera la California una parte ostile del paese per le sue idee liberal. Los Angeles osserverà da vicino il mondiale calcistico per trarne lezioni per il futuro. Difficile immaginare che tipo di America ospiterà le Olimpiadi californiane, ma quel che è certo è che coincideranno con un’estate di campagna elettorale: sarà il momento in cui il paese deciderà chi scegliere dopo Trump. A meno che The Donald non inventi un modo per provare a correre per un terzo mandato, come ripete sempre più spesso nelle interviste.