La recensione del libro di Elisabeth Asbrink edito da Iperborea, 479 pp., 20 euro
L’odio a cui fa riferimento la scrittrice svedese Victoria Benedictsson (1850-1888) è un sentimento misto di “rabbia” e “indignazione”, che la spinge a ribellarsi alla sua condizione di donna, predestinata a una vita squallida e sottomessa, nella scandinavia protestante della seconda metà dell’Ottoento. Grazie alla sensibilità di Elisabeth Asbrink scopriamo l’esistenza breve e tormentata di un’autrice oggetto di studio e di culto nel suo paese, ma mai pubblicata in Italia. La vita sofferta della Benedictsson, assai più delle sue opere, è al centro dell’indagine psicologica dell’autrice, che si concentra sulle origini, l’infelice matrimonio, la lotta per l’emancipazione e la fuga dall’ambiente desolato in cui è rinchiusa la donna, fino al tragico suicidio, a soli 38 anni, a Copenaghen.
Dopo averle impedito di proseguire gli studi, il padre la manda in sposa troppo giovane a un uomo troppo vecchio, un vedovo modesto e sgradevole, padre di numerosi figli. Un’imposizione che si rivelerà catastrofica e che lascerà un’impronta negativa indelebile nell’esistenza della donna. Presto incinta, Victoria si rivelerà una cattiva madre e, alla seconda gravidanza, sarà capace di peccati tormentosi e inconfessabili.
Asbrink ricostruisce, passo dopo passo, i faticosi tentativi di uscita di Benedictsson dalla sua disperante condizione di donna di provincia. Victoria scrive con abnegazione, manda i suoi racconti alle riviste letterarie e ai giornali. Riesce a farsi pubblicare solo ricorrendo – come altre importanti scrittrici dell’Ottocento – a uno pseudonimo maschile. Infine, ecco giungere il riconoscimento del suo talento e il successo.
Centrale, nella vita della scrittrice, è l’incontro con Georg Brandes, autore, critico letterario, brillante conferenziere e polemista. Victoria lo ammira, se ne invaghisce, cerca per suo tramite di accedere alla borghesia colta e benestante di Copenaghen. Ma la sessualità di lei è ormai appassita e l’interesse del donnaiolo Brandes sfuma rapidamente. Siamo all’epoca di Ibsen e Nietzsche, temi moralmente scottanti quali femminismo, sessualità, matrimonio, voto alle donne, prostituzione sono al centro di un infuocato dibattito pubblico.
La scrittrice è ormai affermata e apprezzata, ma ciò non le garantisce l’autonomia finanziaria, né placa la sua insicurezza interiore e la depressione autodistruttiva. “Victoria Benedictsson si vergogna profondamente (…) sprofonda nell’umiliazione e nell’angoscia. Al termine della lettura, dice di voler morire. Ci sono tre cose stupide da cui bisogna stare alla larga, risponde Brandes. La rassegnazione, l’ottundimento – vale a dire bere per sedarsi – e il suicidio. Lui conosce la tentazione di ottundersi. Benedictsson risponde di preferire il suicido”.
Elisabeth Asbrink
Il mio grande, bellissimo odio
Iperborea, 479 pp., 20 euro