Federico Visentin esprime preoccupazione per le richieste dei sindacati che puntano a irrigidire i salari, rischiando di frenare l’efficienza del sistema industriale. Difende un modello flessibile che ha garantito crescita reale e welfare aziendale
Uno spettro s’aggira per il mondo del lavoro: il populismo sindacale, anch’esso trasversale come le altre varianti dell’onda che travolge ogni equilibrio. Il vecchio fantasma antagonista, con “il salario variabile indipendente” come sua appendice, riporta indietro nel tempo proprio il settore di punta dell’economia italiana: l’industria metalmeccanica, la regina dell’export anche se cibo, vino, moda si prendono le luci della ribalta. Federico Visentin presidente della Federmeccanica, l’associazione imprenditoriale che fa capo alla Confindustria, confessa al Foglio la propria “amarezza”. Si dice sorpreso e ovviamente preoccupato. E non nasconde il suo sconcerto: ma come, spiega in sostanza, proprio adesso, proprio quando lo scenario mondiale è messo sottosopra, mentre si rischia un lungo periodo di bassa crescita e inflazione elevata (può tornare, insomma, la vecchia stagflazione) il sindacato rimette in discussione un modello che fa da punto di riferimento anche per le altre categorie, un contratto che ha protetto dall’inflazione e consente una distribuzione dei risultati aziendali anche mettendo a frutto le parti variabili della busta paga, un sistema che stimola la cultura d’impresa e le economie di scala due punti sui quali il presidente Visentin insiste molto. Sembra paradossale.
La Federmeccanica ha fatto un po’ di conti: a dicembre 2024, sulla base dei dati Istat, risulta che in un anno le retribuzioni contrattuali nella metalmeccanica/meccatronica sono cresciute del 6,5% rispetto al 5,4% registrato per l’industria in senso stretto. Gli adeguamenti retributivi dei minimi di garanzia hanno prodotto incrementi di circa 310 euro lordi al livello C3 (un tempo quinto livello). È una crescita di lungo periodo: dal 2008 al 2024 i salari nella metalmeccanica sono aumentate più dei prezzi. Le retribuzioni nominali lorde sono cresciute di circa il 45%, l’inflazione invece di circa il 31%, determinando un incremento dei salari reali di circa il 10%. Nello stesso periodo il costo del lavoro è salito del 43,5%, la produttività del 4,4%; quindi il costo per unità di prodotto è rincarato del 37,5%. Sono cifre che smentiscono molte convinzioni comuni.
“In Italia c’è un serio problema salariale”, sottolinea Visentin, ma la meccatronica è andata meglio proprio grazie al sistema contrattuale o, meglio, di relazioni industriali, sviluppato da aziende e sindacati insieme. Si pensi al welfare aziendale e all’assistenza sanitaria integrativa introdotta otto anni fa. “Allora perché bloccare un meccanismo che funziona?” Visentin cerca una risposta e invita a una discussione più ampia che vada oltre la vertenza sindacale per arrivare al cuore della grande questione industriale, aperta più che mai adesso che occorre ripensare alla catena del valore senza rimettere in crisi la libertà dei commerci.
I sindacati chiedono più dell’inflazione sui minimi. Sostengono che i salari non hanno tenuto il passo, ma usano nella loro polemica una media generale, non quella della categoria, sottolinea la Federmeccanica. E vogliono irrigidire il più possibile la retribuzione senza puntare come un tempo sui benefici accessori, chiedono più soldi subito in busta paga per aumentare i consumi. “Ma i consumi crescono ancor di più con i flexible benefits che sono detassati e riducendo le spese delle famiglie grazie all’assistenza integrativa”, rilancia Visentin il quale tiene a valorizzare le proposte presentate dalla Federmeccanica volte a stimolare la stessa cultura d’impresa. Per esempio, i 700 euro per i dipendenti delle aziende senza premio di risultato che abbiano un margine operativo lordo superiore al 10% del fatturato, crescente. I sindacati vorrebbero che l’aumento non fosse collegato a nessun risultato. “La ricchezza va distribuita, ma prima va prodotta”, dice Visentin, un principio di buon senso che faceva parte di quel modello che i sindacati ora contestano.
Così arriviamo alla domanda ancora senza risposta: perché? Che cosa ha provocato questa marcia indietro? C’è lo spirito dei tempi, c’è una incertezza che non è nata con Donald Trump, forse s’è diffusa con la pandemia; ma la linea erratica del presidente americano non fa che aggiungere ansia e preoccupazione. Così come le imprese si astengono dall’investire, i sindacati tornano al “tutto e subito”. Non va sottovalutata nemmeno la componente soggettiva, cioè la leadership. Non ci sono più Lama e Agnelli come negli anni ‘70 né Ciampi e Trentin negli anni ‘90 (per ricordare due decenni segnati da serie crisi economiche e instabilità politica). Tutto ciò senza dubbio contribuisce a rafforzare il bisogno di protezione nel privato come nel pubblico, lo si vede dalla pressante richiesta di aiuti e interventi del governo. Il presidente della Federmeccanica non offre soluzioni globali, ma invita al confronto e alla ricerca; intanto ha una partita contrattuale da giocare e vuole che sia una delle risposte possibili, una fiaccola nei tempi bui.