L’effetto dazi in Russia

Le decisioni di Trump non riguardano Mosca, ma scoprono il punto fragile dei progetti di Putin e dei suoi piani di guerra legati al petrolio. Per il capo della Casa Bianca sarebbe semplice bloccarli e il Cremlino ha mandato Dmitriev a cercare la cura

Tutti i calcoli dell’economia russa sono fatti prevedendo il prezzo del petrolio a 70 dollari al barile. Il 7 aprile è successo quello che secondo Mosca non doveva succedere: il prezzo del petrolio russo è crollato al minimo degli ultimi 21 mesi, arrivando a 51,54 dollari al barile. La causa sono stati i dazi di Donald Trump che, come molti analisti russi avevano previsto, nonostante non abbiano colpito direttamente la Russia, hanno scosso però anche l’economia di Mosca. Le entrate dalla vendita di petrolio costituiscono circa il 30 per cento dell’economia russa e la vera arma nelle mani di Donald Trump per colpire il Cremlino che blocca ogni accordo è proprio colpire il petrolio. Trump minaccia Mosca, ma finora non ha preso delle decisioni definitive per fare pressione sul presidente russo che continua a respingere i negoziati per far finire la guerra in Ucraina. Il Cremlino non sottovaluta la possibilità che il presidente americano potrebbe un giorno imporre sanzioni secondarie in grado di bloccare l’economia di Mosca, trasfigurata dalla guerra.


I conti russi sono tenuti in vita dal fatto che, nonostante tutte le sanzioni imposte da Stati Uniti e Unione europea, le esportazioni di gas e petrolio non hanno subìto variazioni significative: il punto di forza è in realtà una grande debolezza se Trump decidesse di intervenire. L’allarme c’è e il Cremlino ha preso la decisione di usare l’arma del dialogo, della persuasione e degli affari. Non esiste persona in Russia che possa dialogare meglio con l’Amministrazione americana di Kirill Dmitriev, l’economista russo che ha studiato negli Stati Uniti, che parla un’inglese fluente, veste da uomo d’affari americano e di recente era a Washington a proporre alla squadra di Trump di spartirsi l’Artico.


Dmitriev è andato negli Stati Uniti dopo che il presidente americano aveva iniziato a dire alla stampa che l’atteggiamento del leader russo lo stava facendo “incazzare”. Sapendo che Trump non poteva essere lasciato a mani vuote, l’uomo d’affari nato a Kyiv e capo del Fondo di investimenti esteri russo è andato a rinverdire l’idea di una relazione fruttuosa tra Mosca e Washington. Dmitriev ha portato ai consiglieri di Trump dei dati concreti su quanto sia conveniente un’alleanza nell’Artico: il 13 per cento del petrolio non sfruttato, il 30 per cento del gas, una nuova rotta per 260 milioni di tonnellate di merci all’anno, il 30 per cento più veloce di quella di Suez.


Da quando Trump è arrivato alla Casa Bianca nessun funzionario russo ha chiesto l’eliminazione delle sanzioni degli Stati Uniti. Nessuno tocca l’argomento, evitando che l’Amministrazione americana lo metta al centro dei colloqui. Il punto per Mosca è che la spinta economica per mandare avanti la guerra può continuare ancora a lungo, ma tutto è vincolato ai prezzi del petrolio. I dazi di Trump, arrivando a scuotere proprio il centro della stabilità russa, hanno aggiunto un elemento di difficoltà economica in più che si somma alla mancanza di manodopera e ai tassi di interesse elevati. In questo momento, più che le decisioni dei generali sul campo, per Putin conta il successo di Dmitriev con Trump.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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