La visita di Netanyahu a Washington non è stata un successo e la stampa israeliana parla di “trattamento Zelensky”. Teheran ha capito quanto al presidente americano piaccia negoziare, va in Oman a parlare di nucleare e Israele scopre che l’amicizia con il capo della Casa Bianca ha dei limiti (anche sulla Siria)
La Repubblica islamica dell’Iran ha capito il più importante dei punti del programma di Donald Trump: il presidente americano non vuole essere ricordato per le guerre, neppure quelle vinte, ma per gli accordi, anche quelli storti. L’importante per il capo della Casa Bianca è che i nemici si siedano allo stesso tavolo e l’America possa disimpegnarsi. Infatti sabato le delegazioni di Washington e Teheran saranno in Oman e per riprendere i negoziati sul nucleare iraniano. Non è un bene per gli Stati Uniti che Teheran abbia capito l’ossessione di Trump per gli accordi, ma il vero problema è per Benjamin Netanyahu che, dopo essersela presa con le Amministrazioni Obama e Biden per aver cercato un dialogo con gli iraniani, nello Studio ovale lunedì ha continuato a guardare il pavimento mentre Trump annunciava i colloqui con l’Iran.
Il primo ministro israeliano si mordeva un labbro, a guardarlo la stampa israeliana si è domandata se non fosse il caso di parlare di “trattamento Zelensky” anche per Netanyahu, portato davanti alle telecamere, messo di fronte al fatto compiuto, ignorato nelle sue richieste. La visita del premier israeliano è stata organizzata in fretta, era previsto un nuovo incontro con Trump negli Stati Uniti, ma si è deciso di anticiparlo non appena Israele si è reso conto che l’Amministrazione americana stava procedendo sempre più spedita nei contatti per un colloquio con l’Iran. L’obiettivo di Netanyahu era di presentarsi dal presidente americano con delle richieste specifiche, ribadire la posizione israeliana, la mancanza di fiducia nei confronti degli iraniani. “Ogni incontro fra Trump e Netanyahu finisce con una sorpresa”, dice Eytan Gilboa, esperto di relazioni tra Stati Uniti e Israele del Centro per gli Studi strategici Begin-Sadat e dell’Università Bar-Ilan. Questa volta però la sorpresa ha messo il primo ministro israeliano nella condizione di non poter criticare quello che ha definito per anni “il miglior alleato di Israele”. “Quando ti profondi in queste definizioni, quando critichi tutti gli altri, quando lo stesso Trump usa le tue parole per legittimare le sue decisioni, non sei nella posizione di dire un ‘no’. Non puoi importi”, dice Gilboa.
Ieri la stampa di regime iraniana sottolineava che Teheran è pronta a negoziare, ma non a prezzo della vergogna. “La tattica del bastone e della carota – si legge sul quotidiano Iran Daily – può ritorcersi contro, perché l’Iran rimane fermo contro la pressione”. Teheran, come Mosca, sa come condurre dei negoziati lunghi, come estenderli perché durino per anni, come lasciar macerare i colloqui in un’attesa utile a non trovare mai una soluzione. Israele non si fida che la Guida suprema Ali Khamenei voglia davvero negoziare, la valutazione che viene da Gerusalemme è che Teheran ritiene più conveniente in questo momento farsi vedere disposto, ma senza uscirne umiliato. Per lo stato ebraico un negoziato deve portare allo smantellamento totale del programma nucleare, una condizione che gli iraniani non accetterebbero mai. Dopo il cattivo incontro con Trump, Netanyahu ha detto ieri che la soluzione per l’Iran deve essere la stessa imposta alla Libia nel 2003 e il presidente americano è d’accordo con lui. Non è chiaro invece per cosa intenda negoziare il capo della Casa Bianca, se per lo smantellamento del programma nucleare, come avvenuto con Tripoli nel 2003, o per la sospensione. Il presidente americano aveva stracciato il Piano d’azione congiunto globale (in sigla: Jcpoa), un accordo imperfetto che comunque non forniva sufficienti garanzie che l’Iran stesse arricchendo l’uranio per scopi civili, e il rischio è che oggi sia invece disposto ad accontentarsi di un nuovo piano con le stesse garanzie di quello vecchio o anche di meno. Ci sono almeno tre domande aperte a cui Trump non ha risposto. La prima è sull’obiettivo del negoziato: sospensione o eliminazione del programma nucleare. La seconda è sul piano dell’Iran in medio oriente e se l’Amministrazione americana punta a ottenere anche lo smantellamento del sedicente Asse della resistenza. La terza e ultima domanda è quella per cui Netanyahu è andato a cercare una risposta a Washington: se l’Iran non ci sta a negoziare sul serio, cosa faranno gli Stati Uniti?
L’Iran ha detto che i colloqui saranno indiretti, gli Stati Uniti invece li definiscono diretti. La certezza è che le delegazioni che si incontreranno in Oman saranno di alto livello. Quella americana sarà guidata da Steve Witkoff, l’immobiliarista amico di Trump, inviato a risolvere le crisi internazionali, considerato tra i più accomodanti nel rapporto con Teheran assieme al vicepresidente J. D. Vance. A capo della delegazione iraniana andrà invece il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, che ha definito l’incontro “tanto un’opportunità quanto un test”. Israele guarderà da lontano, accontentandosi dei resoconti dell’Amministrazione americana.
La visita di Bibi a Washington non è stata un successo e le brutte notizie non riguardano soltanto l’Iran, ma anche la Turchia che vuole riempire il vuoto lasciato da Teheran in Siria. Israele sta facendo di tutto per impedirlo, ieri Trump ha detto: qualsiasi problema avrete con il mio amico Erdogan, dovete dirmelo, io lo risolverò, ma dovrete essere ragionevoli. Netanyahu, che per l’incontro si era messo la cravatta rossa da repubblicano, non riusciva a stare fermo sulla sedia.