Così Stephen Miran svela il bluff della politica commerciale di Trump

Il chair del Consiglio dei consulenti economici del presidente spiega le scelte dell’Amministrazione come elemento di una strategia di politica economica internazionale

Cosa pensasse Stephen Miran era noto da tempo, ma scrivere nella veste di senior strategist di un fondo di investimenti è cosa ben diversa dal farlo in qualità di chair del Consiglio dei consulenti economici (Cea) del presidente degli Stati Uniti. Ed è in quest’ultima veste che solo due giorni fa Miran ha finalmente chiarito che le scelte di politica commerciale dell’attuale Amministrazione americana non sono tanto l’avvio di una guerra commerciale, quanto un elemento di una più ampia strategia di politica economica internazionale mirata, in buona sostanza, a rimborsare gli Stati Uniti – puntellando così le loro finanze pubbliche – per gli oneri che hanno sostenuto e sostengono offrendo sicurezza agli alleati e fornendo al mondo intero una valuta di riserva. E, per questa duplice via, garantendo la prosperità e la pace del mondo. Talché – è questa la conclusione – sarebbe nell’interesse di tutti, alleati e non, ripartire equamente gli oneri stessi, ponendo così le basi per ulteriori decenni di pace e prosperità.



Che gli Stati Uniti abbiano consentito agli alleati – in primis agli europei – di godere dei vantaggi di un’efficace protezione militare sopportandone solo in parte gli oneri corrispondenti è cosa difficilmente controvertibile. Altrettanto evidenti, per la verità, sono i vantaggi che l’industria militare statunitense ne ha derivato. Ma è difficile non vedere che la pace e la prosperità di cui abbiamo goduto – nei limiti in cui ne abbiamo goduto – sono il risultato di un complessivo equilibrio internazionale in cui gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo decisivo ma certamente non esclusivo.



E per quanto riguarda il ruolo del dollaro come moneta di riserva è difficile scrivere di più e di meglio di quanto non abbia recentemente fatto Barry Eichengreen sul Financial Times (“Can the dollar remain king of currencies?”, 25 marso 2025), ricordando che “il continuo predominio del dollaro deriva da semplici dati di fatto – l’ampia quota degli Stati Uniti nel pil globale e nelle transazioni finanziarie – ma anche dalle relazioni e dalla reciprocità”. Miran, trascurando del tutto questi ultimi aspetti e l’impatto devastante che su di essi stanno già avendo le scelte dell’Amministrazione Trump, si limita a riconoscere a denti stretti i vantaggi che gli Stati Uniti avrebbero tratto – ad esempio, in termini di tassi di interesse – da questa loro condizione, ritenendo – semplicisticamente, se è lecito – che questi siano stati più che controbilanciati dalle distorsioni indotte sui mercati dei cambi e dalle conseguenze reali di un dollaro sopravalutato.



In realtà, Miran è il primo a non credere alle proprie parole nel momento in cui si augura che gli Stati Uniti continuino a essere “fonte di pace e di prosperità” e che la valuta statunitense continui a rimanere la valuta di riserva, purché venga adeguatamente rimborsata per gli oneri sopportati. Perché è fin troppo evidente che altre ipotesi sarebbero possibili. Gli storici alleati degli Stati Uniti potrebbero – come già stanno facendo – decidere di provvedere (gradualmente ma finalmente, bisogna dire) alla propria sicurezza, ovviamente dotandosi anche di una propria industria militare. Altre valute, a partire dall’euro, potrebbero, sostituirsi al dollaro come già fin troppo timidamente hanno cominciato a fare. Ci vorrà tempo ma non è affatto detto che l’esito – in termini di pace e prosperità – non sia conseguito e finalmente gli Stati Uniti sarebbero liberati da quello che Miran considera solo un onere. Ma il principale consigliere economico del presidente degli Stati Uniti sa bene che questo non sarebbe un esito desiderabile per gli Stati Uniti, che in non pochi casi hanno tratto significativi benefici dal loro status e che vedrebbero invece drasticamente ridimensionato il proprio ruolo internazionale e magnificati i propri squilibri macroeconomici e i propri strutturali problemi, a cominciare dalle tendenze della finanza pubblica, preoccupanti anche a prescindere dai programmi dell’attuale amministrazione. Forse dovremmo cominciare a pensare di poter rispondere all’atteggiamento statunitense facendo nostra una delicata espressione recentemente utilizzata da Donald Trump: “You don’t have the cards”.

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