La fede nella scrittura sul ring della vita. Intervista a Richard Ford

La Cia, i marines, le ferrovie i lavori mancati. E un nonno che gli ha insegnato a boxare: “Senza i suoi insegnamenti avrei perso molte sfide”. L’urgenza della letteratura, lo sgomento per il mondo d’oggi. Incontro con lo scrittore americano

“No politics, please. I’m numb to politics now”. E’ l’unica condizione che ha posto Richard Ford quando gli ho chiesto un’intervista: è sgomento per quanto sta avvenendo nel mondo, ed è convinto che “il gesto più politico che possa si fare oggi è eseguire con umiltà il proprio mestiere”. Sembra molto più giovane degli 81 anni compiuti a febbraio e scrive ogni giorno senza rinunciare a nessuna delle abitudini quotidiane: bastano poche battute per capire che l’aggettivo numb/intorpidito è relativo solo alla politica, fonte continua di assoluto disincanto. Scherza sul fatto che Carlo Feltrinelli lo tiene fedele alla casa editrice invitandolo costantemente a caccia, ma poi un sorriso amaro affiora nello sguardo da seduttore: “Sono arrivato a un’età nella quale la mia condizione fisica può solo peggiorare”, dice improvvisamente, e mi racconta di essere appena tornato da un ospedale dove ha accompagnato la moglie a togliere il gesso per una frattura. “Ogni volta che resisto all’idea di essere arrivato al tramonto dell’esistenza”, conclude “la vita stessa si occupa immediatamente di ricordarmelo”. Il matrimonio con Kristina Hensley ha resistito sessanta anni a ogni tipo di tempeste, e nonostante sia dichiaratamente ateo lo descrive con una metafora del vangelo: “La casa sulla roccia”. Hanno vissuto sempre insieme i cambiamenti irreversibili della società e del ruolo delle donne, e oggi racconta: “Sembra incredibile che sino a un secolo fa non avessero neanche il diritto di voto. A partire dagli anni Sessanta l’emancipazione delle donne ha vissuto una continua accelerazione, e negli ultimi tempi, ciò ha generato una reazione, a volte apertamente violenta, a volte più ipocrita e infida, da parte di chi non ha accettato di perdere il ruolo dominante, o per usare un termine molto in voga, patriarcale”.



Crede che si arriverà mai a una parità tra i generi? Nonostante gli indubbi e notevoli passi avanti, la strada è ancora lunga, basta guardare la discrepanza tra gli stipendi rispetto agli uomini. Io penso che nel fondo del fenomeno di tutti questi omicidi efferati e apparentemente insensati nei confronti delle donne ci sia una reazione al tentativo di riequilibrio tra i generi.


Quale è la sua opinione sul movimento #MeToo? Si tratta di qualcosa nato da denunce sacrosante nei confronti di atteggiamenti vergognosi e intollerabili. E’ partito insomma bene e in maniera assolutamente legittima, ma poi purtroppo è iniziata una crescente degenerazione e sono emersi atteggiamenti opportunisti e, mi addolora dirlo, del tipo più insidioso di fascismo, quello di sinistra.


Mi ha chiesto di non parlare di politica e poi è lei a farlo… La realtà è che ogni azione umana è in qualche modo politica. Torniamo ai generi e alla famiglia: lei ha perso suo padre quando aveva quindici anni ed è stato allevato da sua madre Edna, della quale ha scritto: “La sua prima ambizione era quella di essere innamorata di mio padre, la seconda una madre a tempo pieno”.



Sono figlio unico e nei miei confronti era molto esigente. Mio padre rappresentava la sua intera vita, e quando è morto è stata costretta reinventare la propria esistenza. Era originaria dell’Arkansas più rurale e in quel tempo vivevamo in Mississippi, dove non conosceva nessuno tranne i nostri vicini e una coppia di amici di mio padre. Era dotata però di una grande tempra e di un forte senso dell’umorismo, due talenti che l’hanno salvata e mi hanno formato. Un altro personaggio fondamentale della sua formazione è stato suo nonno, un ex pugile: che ruolo ha avuto nel suo approccio vitalistico, secondo cui la vita è una sfida continua? Mio nonno ha dato una struttura al mio carattere, e nel caso specifico mi ha insegnato a boxare. Il pugilato è detto la noble art perché è insieme un’arte e una scienza, non è un caso che spesso prevalga il pugile meno forte. Senza i suoi insegnamenti avrei perso molte sfide. Da giovane lei ha lavorato nella costruzione delle ferrovie, ed è nota la sua passione per l’azione fisica, a cominciare dalla caccia: il suo profilo letterario è molto diverso da quello di gran parte degli scrittori contemporanei. Il mio ruolo non era di operaio, ma di addetto al controllo delle costruzioni. Un lavoro molto più noioso, eppure formativo: mi ha insegnato che buona parte di quello che facciamo non è quello che vorremmo. Io non credo che esista un profilo standard degli scrittori, è un modo di catalogarci inventato dai critici e a volte da noi stessi. Ognuno porta sulla pagina scritta la propria esperienza, ciò che ci differenzia è il talento e l’urgenza che ognuno di noi ha di scrivere. Lei comunica l’impressione di considerare l’approccio intellettuale come un rischio rispetto alla creazione dell’arte.

E’ un’impressione sbagliata: so bene che esiste una differenza fondamentale tra un intellettuale e un artista, e che l’erudizione o anche l’autentica cultura non ti rende necessariamente uno scrittore valido, ma per quanto mi riguarda mi sforzo sempre di realizzare qualcosa che abbia qualità e spero intelligenza, lavorando a lungo, anche intellettualmente, sulle parole. In questo ho in mente il lavoro di Robert Stone e Joseph Conrad. Proprio ieri notte ho avuto un sogno illuminante: qualcuno mi diceva che come scrittore ero un peso leggero. Un giudizio sprezzante e un riferimento pugilistico. E’ vero che ha lavorato per la Cia? Non esattamente. Avevo finito la scuola di giurisprudenza ed ero disoccupato, quando una mattina leggo un annuncio su un giornale nel quale era scritto che la Cia offriva dei posti di lavoro. Il colloquio era a Mobile, in Alabama, e dopo molte ore di viaggio vengo ricevuto da un ammiraglio in una stanza al buio: invece di preoccuparmi, la situazione ha fatto crescere il mio interesse. In un primo momento non c’erano posti adatti per quello che poteva pretendere il mio curriculum, ma poi, poche settimane dopo il mio matrimonio, mi è arrivata una proposta di lavoro come analista a Langley, in Virginia: la Cia riteneva molto utile che conoscessi il francese. Ma a quel punto Christine ha cominciato a mettersi di traverso, non ne voleva sapere di un marito che lavorava per la Cia. Devo confessare però che il vero motivo per cui ho rinunciato è stato la proposta di fare l’analista: all’epoca volevo fare la spia.



Come valuta oggi quella sua passione? Se sottintende un mio eventuale imbarazzo le rispondo assolutamente no, non ne ho alcuno: ogni cosa dipende da come la si fa e perché, e me affascinava l’idea di lavorare in segreto per il mio paese. E’ vero però che si è arruolato nei marines? Anche in questo caso è vero sino a un certo punto. Subito dopo essermi arruolato ho contratto l’epatite e sono stato quasi due mesi in ospedale prima di essere rimandato a casa. Qualcosa continuava a trattenermi dal lavorare per il mio paese, e oggi, a ripensarci mi diceva che il modo per farlo era scrivendo.


Uno dei suoi primi lavori è stato quello di giornalista sportivo: cosa è rimasto di quella esperienza, nella sua scrittura di romanziere? Innanzitutto devo dire che mi piaceva molto: era relativamente semplice, viaggiavo sempre e conoscevo i miei eroi. L’errore più goffo che si possa fare scrivendo di sport è considerarlo una metafora della vita: si tratta di giochi e niente più, e per celebrarli si deve avere questa semplice consapevolezza. Da quella mia esperienza nasce il mio romanzo The Sportswriter. Dopo l’insuccesso dei primi romanzi era sul punto di smettere con la narrativa.



Mi resi conto che c’era un enorme distanza tra le mie ambizioni e quello che interessava ai lettori. Pensai seriamente di trovare un impiego vero, che mi desse da vivere. Poi ho sentito quell’urgenza di cui parlavo prima: una sensazione che ti fa sentire che non potresti far altro, pena l’infelicità. Ha trovato la felicità nella scrittura? Diciamo che ha evitato la sicura infelicità che avrei avuto senza la scrittura.


La critica lo colloca spesso tra gli scrittori del Sud: è una definizione che le piace o le sembra limitante? Succedeva con i primi libri, non credo che oggi si possa ancora dirlo. In realtà non mi interessava scrivere del Sud, e c’erano scrittori magnifici che lo avevano fatto meglio di me come William Faulkner ed Eudora Welthy. Quali sono gli autori che l’hanno influenzata? Raymond Carver, che è stato anche un grande amico dal quale ho imparato molto sul piano umano e letterario. Ma ce ne sono molti altri, a volte inconsapevolmente: oltre ai due già citati direi John Cheever e Alice Munro.

A proposito della sua scrittura c’è chi parlato di “realismo sporco” e “minimalismo”. Ritorniamo nelle catalogazioni di comodo dei critici. Non ho mai capito cosa significhino. Ritiene che il linguaggio dell’immagine stia sostituendo quello della parola? E’ una domanda che richiede un’analisi approfondita e dettagliata, e per brevità rispondo purtroppo si.

Che impatto hanno sulla letteratura i social media, in particolare X, con la restrizione a un numero contingentato di caratteri? Non so nulla dei social media e non mi interessano. Anche se proprio in questi giorni ho fatto un po’ di ricerche perché sto ragionando su un breve romanzo con protagonista un Dean di una università che perde la testa per una studentessa. Sono stato costretto a studiare come funzionano per capire come ragiona una generazione che sembra sposata solo con i social media. Sua madre e suo nonno l’hanno allevata secondo i dettami della religione presbiteriana, ma un giorno si è allontanato dalla religione. Ricordo perfettamente quel giorno, stavo andando in chiesa e all’improvviso ho sentito un moto di disillusione e ribellione. Quel momento ha coinciso con la decisione di diventare uno scrittore. Si può affermare che la scrittura è la sua religione? Senza dubbio, e cito sempre una battuta di Wallace Stevens, alla quale torno spesso: “Nei periodi in cui il credo latita, il compito del poeta provvede a soddisfare la sua fede in misura e stile”. Per quanto mi riguarda, preferisco essere uno scrittore piuttosto che un prete. I testi sacri, a cominciare dalla Bibbia, sono anche un racconto… Molto spesso un racconto splendido e pieno di immaginazione, altrettanto spesso deformato e strumentalizzato. Anche se non credo leggo molto volentieri i testi sacri, e capisco che molta gente trova in queste parole consolazione e sollievo.

Lei si dichiara ateo, ma ha dichiarato di essere affascinato dalla definizione della fede di San Paolo: “Il fondamento delle cose che si sperano, e l’evidenza di quelle che non si vedono”. Mi sembra una definizione magnifica, e dal momento che per me i libri sacri sono solo racconti, non esito a definirlo un momento di grande letteratura. Qual è il suo atteggiamento nei confronti di un credente: ritiene che sia un illuso, una persona che forma la propria vita su qualcosa che non esiste o addirittura di menzognero? Purtroppo è proprio come dice. Sarebbe bello se esistesse Dio, ma non riesco a crederci.


E il suo atteggiamento nei confronti della religione organizzata? Voglio evitare di cadere nello stereotipo della descrizione dell’istituzione malvagia che tradisce il messaggio sublime. Le religioni sono gestite da uomini e come tali sono composte da santi e corrotti. Secondo lei cosa succede dopo la morte? I parenti vanno a mangiare mentre il corpo si riempie di vermi prima di diventare polvere.

Anche Charles Bukowski parla di stile come Wallace Stevens, e in una sua poesia ha scritto “lo stile è la risposta a tutto. Un modo nuovo per affrontare qualcosa di noioso o pericoloso. Fare una cosa noiosa con stile è preferibile al farne una pericolosa senza. Fare una cosa pericolosa con stile è quello che io chiamo arte”. Bukowsky pone una questione fondamentale. Personalmente non direi che lo stile è tutto, ma molto. In Sportstwriter gioco sullo slogan location location location delle agenzie immobiliari, cambiandolo in locution: la parola, e il modo in cui essa è usata, può cambiare tutto.


Bukowski scrive anche: “Ho visto cani con più stile degli uomini” e poi “ho conosciuto uomini in galera con stile. Ho conosciuto più uomini con stile in galera che fuori. lo stile è una differenza, un modo di fare, un modo di essere fatti”. Diciamo che aveva uno sguardo sull’esistenza differente dal mio, ma dice molte verità. Lei non si è risparmiato gesti violenti e clamorosi: quando Alice Hoffman ha stroncato il suo libro Sportwriter, con il quale ha vinto sia il Pulitzer che il Pen/Faulkner, le ha fatto recapitare un suo libro squarciato da colpi di pistola, e ha sputato in faccia a Colson Whitehead dopo che lui aveva stroncato Infiniti peccati, dicendogli “hai sputato sul mio libro e io sputo su di te”.

Molti sono sconcertati da queste mie azioni, e ancora di più che non me ne sia pentito. Sentirmi in colpa non cambierebbe di molto quanto è accaduto né quello che penso: non si prende però mai in considerazione la violenza di certe recensioni, gli insulti personali, i giudizi fuorvianti e farneticanti. E se mi chiede dove è andato a finire lo stile in quei frangenti le rispondo che lo stile non ha nulla a che fare con le buone maniere. La poesia di Bukwoski continua dicendo: “Quando Hemingway si fece schizzare il cervello sul muro con un fucile, quello era stile, perché a volte la gente ti insegna lo stile”. E poi continua con un elenco di persone che hanno avuto stile: “Giovanna D’Arco aveva stile. Giovanni Battista. Gesù. Socrate”. Ha raggiunto ottantuno anni, e anche i suoi personaggi, come il suo alter ego Frank Bascombe, portano i segni dell’età: è d’accordo con Philip Roth che la vecchiaia è un massacro? Non sono ancora arrivato a quella fase, ma so che purtroppo non manca molto. Quali sono i suoi più grandi rimpianti? Nulla da farmi soffrire. Avrei potuto fare meglio alcune delle cose che ho fatto. Samuel Beckett diceva: “Prova di nuovo, sbaglia di nuovo, sbaglia meglio.” Che consiglio darebbe a un giovane che ambisce a fare lo scrittore? Di scrivere sapendo che l’unica vera gratificazione è proprio nella scrittura. Il resto è poca roba, tranne la solitudine, anche nei rarissimi casi in cui il lavoro di scrittore ti arricchisce. Le ho dato la mia parola che non le avrei fatto domande politiche, mi lasci però chiedere almeno se l’America di oggi è ancora la terra delle opportunità. Io credo che abbiamo parlato di politica, ma per rispondere alla sua domanda, in questo momento l’America sembra che sia la terra delle opportunità solo per chi ha già molti soldi, e se è così è un grave tradimento delle fondamenta di questo paese. Aggiungo che spaventa la consapevolezza che chi ci comanda non ha alcun ideale e convinzione, tranne la fede nel potere e nel denaro.

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