La politica tariffaria degli Stati Uniti non risponde a logiche economiche ma a obiettivi politici poco compatibili tra loro. Il rischio? Colpire i consumatori, non risanare i conti pubblici, indebolire il dollaro e destabilizzare l’ordine globale. L’Europa non può più limitarsi ad attendere: serve visione, coesione e iniziativa
Si farebbe – temo – una fatica inutile cercando di applicare la logica economica usuale alle scelte dell’Amministrazione americana. La stessa, francamente risibile, modalità di calcolare i dazi dovrebbe chiarirlo. Non è seriamente pensabile che una amministrazione come quella americana scambi le barriere tariffarie al commercio internazionale – grandi o piccole che siano – con la entità del disavanzo bilaterale degli Stati Uniti. Se lo fa, se maneggia le tariffe così come si maneggerebbe una pistola in un saloon frequentato da gente poco raccomandabile, ha evidentemente obbiettivi che vanno oltre il puro e semplice riequilibrio della bilancia commerciale degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo. Il punto è che tutto lascia supporre che possa trattarsi di obiettivi fra loro non compatibili. Il che, a sua volta, pone non pochi interrogativi.
Se si prendono al valore facciale le affermazioni fatte nel Giardino delle Rose, l’intento è quello di riportare entro i confini produzioni oggi effettuate, si noti, da aziende americane all’estero ovvero produzioni oggi effettuate altrove ma esportate in misura significativa negli Stati Uniti. Quanto questo sia possibile è oggettivamente incerto. Anche perché, fra l’altro, gli Stati Uniti hanno perso negli ultimi decenni oltre un quarto del loro peso nel commercio internazionale. Ma supponiamo che il proposito sia conseguito. Se così fosse, le produzioni attualmente importate dagli Stati Uniti verrebbero prodotte in loco e dunque nelle casse esangui del Tesoro americano non entrerebbe il fiume di risorse che, sempre nel Giardino delle Rose, è stato anticipato. E di conseguenza non verrebbe risolto il principale problema che rende oggi fragile l’economia americana: un bilancio pubblico tutt’altro che in salute. Per inciso, l’ulteriore riduzione del peso degli Stati Uniti contribuirebbe a minare lo status internazionale del dollaro con tutte le conseguenze del caso. Se, viceversa, l’obbiettivo non fosse raggiunto e i consumatori americani continuassero a pensare che il Parmesan non è esattamente il Parmigiano, le finanze pubbliche ne trarrebbero forse – non è affatto detto – un sollievo a spese, peraltro, dei cittadini americani che vedrebbero però ridotto il loro reddito reale, senza peraltro vedere alcun reshoring. Certo, fra i due estremi, soluzioni intermedie sono sempre possibili e anzi probabili. Ma finirebbero per perpetuare gli squilibri già oggi evidenti.
E allora diventa inevitabile pensare che si voglia utilizzare un secondo strumento per ottenere uno dei due obbiettivi citati. E che ci si prepari, per esempio, in qualche modo, diretto o indiretto, con le buone o con le cattive, a riportare sotto controllo le finanze pubbliche statunitensi. Fra un anno o poco più, dovranno essere nominati presidente e vicepresidente del Sistema della Riserva Federale. Allo stato attuale non è possibile escludere, con certezza, che a occupare posizioni chiave per la credibilità degli Stati Uniti e per la affidabilità dei suoi impegni siano chiamati personaggi disposti, in primo luogo, a essere “supervisionati e controllati dal presidente eletto dal popolo” (come già recita un ordine esecutivo dell’attuale presidente). Forse sarebbe opportuno tenere conto già oggi della probabilità che ciò avvenga. Diversamente dai diamanti, i safe assets non sono per sempre.
Prendere tempo è prudente. Fare quanto possibile e necessario per evitare allarmismi è saggio. Predisporsi al negoziato è doveroso così come lo è individuare risposte unitarie e adeguate nella forma e nella sostanza, in grado – per quanto possibile – di non esacerbare il problema. Trasformare quest’ultimo in una opportunità è, forse, anche possibile. Ma è necessario, temo, comprendere che la sfida che siamo chiamati ad affrontare – dopo una crisi finanziaria di prima grandezza e una emergenza pandemica e nel breve raggio di un quarto di secolo – non è solo una guerra commerciale. Può essere e forse è già molto di più. Ed è bene capirlo per tempo. Senza attendere, tanto per cambiare, che siano il Congresso, i magistrati o l’opinione pubblica americana a levarci le castagne dal fuoco.