Dare del tu a Nicolae Ceausescu e prendere la penna per scrivergli

“Lettera al mio dittatore”, il libro di Eugène Meiltz si rivolge a un fantasma, Nicolae Ceausescu, e lo fa per raccontarci che i fantasmi, in fondo, sono sempre tra noi. Che siano dittatori romeni o imminenti tiranni di altre latitudini

Dare del tu a Nicolae Ceausescu. E prendere la penna per scrivergli. “Lettera al mio dittatore” di Eugène – nome d’arte di Eugène Meiltz, classe 1969, nato a Bucarest ma arrivato in Svizzera, al seguito dei genitori, all’età di sei anni – si rivolge a un fantasma. E lo fa per raccontarci che i fantasmi, in fondo, sono sempre tra noi. Che siano dittatori romeni o eminenti tiranni di altre latitudini, poco cambia – seppure, come sottolinea lo scrittore con un senso di tragicomica delusione rivolgendosi al defunto despota, “la maggior parte dei saggi storici sui dittatori del Ventesimo secolo ti mette da parte. Hitler, Stalin, Mao e Kim Il-sung vi compaiono ai primi posti, ma tu no”.



Ceausescu giù dal podio dei tremendissimi, ma non significa niente: la Romania che visse sotto il suo tallone di ferro – o sotto il suo scettro, come scrisse in un telegramma, con sarcasmo, Salvador Dalì – conobbe vent’anni di terrore, miseria e nordcoreanizzazione. E si ritrovò a stringere la cinghia e i denti, tiranneggiata da un manipolo di ceffi spaventosi e corrotti che sospese la Costituzione, sequestrò un paese e lo privò di un’economia e di un sistema giuridico mentre “gli anziani crepavano di freddo nei loro squallidi bilocali”, la dieta era a base di zampetti di maiale e fare un figlio era un incubo – ma era vietato abortire. “Com’è possibile, compagno Ceausescu, che in un paese ricco come è stato il nostro siamo diventati dei morti di fame?”. Le lettere a Radio Free Europe, che aveva sede in Germania ovest, avevano questo tono e ponevano tutte questa domanda. Risposta: è il comunismo, bellezza. Un detto romeno dell’epoca suonava così: metti un comunista nel deserto e nel giro di sei mesi ci sarà carenza di sabbia. La gente, in giro, camminava rasente ai muri e intanto cercava di sopravvivere, ovviamente in coda. Ma a chiedere agli sfiniti che resistevano ore, per quale bene di prima necessità la stessero facendo, la risposta avrebbe potuto essere: “Boh. Qualcosa ci sarà”.



I fantasmi, si diceva. Viene in mente César Aira e il suo omonimo romanzo, tra le pagine del quale, in una casa in costruzione in calle José Bonifacio a Buenos Aires, prendono vita, nella notte del 31 dicembre, i fantasmi della dittatura passata, che invitano una ragazza al gran veglione di mezzanotte. O certi capitoli de “Il ritorno dell’huligano” di Norman Manea, che raccontano parte di quello stesso incubo che, con leggerezza mai assolutoria o semplificatrice, Eugène ripercorre in chiave più grottesca – per Manea, ebreo della Bucovina romena, la vita fu davvero gramissima (caldo consiglio: il suo mémoir è uno dei libri più belli mai letti sulla Romania comunista).

I fantasmi proseguono l’opera degli uomini: se ti hanno perseguitato da vivi, lo faranno anche dopo. “Mi piacesse o no, la gente mi associava a te”, scrive Eugène. I fantasmi sono presenti nelle strade di una capitale, anche se è stata ricostruita e in gran parte sanata dai fondi europei come la nazione intera, arricchita di ponti, infrastrutture e gallerie, così da “rompere l’isolamento e rinnovare centinaia di chilometri di strade nazionali”. I fantasmi aleggiano nei documenti delle persone e scrivono le traiettorie delle loro esistenze, sia che ci si ritrovi nei panni di una donna qualunque come la madre dell’autore, sia che ci si ritrovi in quelli di Anca Petrescu, colei che disegnò il fastosissimo, folle palazzo privato del dittatore, tirato su in sei anni mettendo al lavoro, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni alla settimana, niente meno che ventimila operai-schiavi. Lo spazio per la reggia lo si ottenne con la forza, e fu l’esproprio più crudele e clamoroso della storia europea – ma nei documenti ufficiali, il compagno Ceausescu, che a stento sapeva leggere, era un uomo di pace e “il primo grande architetto della Romania”; uno che si presentava il sabato e, se qualcosa non gli andava bene, chiedeva di rifarlo di domenica – molti architetti impegnati nel cantiere impazzirono letteralmente. Ecco, è questa la Romania ai confini con l’assurdo e l’abominio che ci racconta Eugène. E il romanzo vola. Poi, nelle ultime pagine, una sorpresa da tragicommedia: e se dovessimo la vita a una carogna?

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