Il protezionismo di Trump ci riporta ai tempi in cui la pace non c’era

Il libero scambio è un pilastro dell’ordine globale. Attraverso i dazi il presidente americano l’ha abbattuto con furia iconoclasta

La foga approssimativa e arruffona con la quale Donald Trump ha introdotto i suoi dazi validi erga omnes, pinguini compresi, è rivelatrice del vero movente che ispira le mosse del bancarottiere diventato il 47esimo presidente degli Stati Uniti. Non si tratta di far tornare grande l’America, ma di far tornare indietro le lancette della storia, a un’epoca precedente la grande trasformazione della seconda metà del Novecento. Come è stato fatto notare da più di un commentatore, Donald Trump ha introdotto un regime tariffario generalizzato analogo a quello in vigore con lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930.

L’opinione prevalente – ma non l’unica – è che i dazi colpiscano non soltanto le economie dei paesi verso i quali sono applicate, ma anche quella del paese che le vara, portando, tra l’altro, al possibile innalzamento dei prezzi, al peggioramento dell’efficienza e persino al rischio di recessione. Sempre a detta di molti, i benefici sul lungo periodo attesi da questo genere di misure, in primis la riduzione strutturale del deficit e la reindustrializzazione degli Stati Uniti, rischiano di essere più che cannibalizzati dagli effetti negativi di breve periodo, l’inflazione innanzitutto. Soprattutto, come ha ricordato in un articolo su Foreign Affairs online il 3 aprile Eswar Prasad, “il deficit della bilancia commerciale americana è il risultato del gap tra i risparmi e gli investimenti interni”, in un’economia come quella americana dove l’indebitamento privato si somma a quello pubblico.

Se “gli Stati Uniti rimangono un buon posto dove investire, la propensione al risparmio rimane bassa, e il governo gestisce enormi deficit di bilancio. Se Trump volesse davvero riportare in pareggio il conto commerciale, farebbe meglio a perseguire misure per promuovere i risparmi nazionali”, piuttosto che individuare fideisticamente nei singoli sbilanciamenti commerciali i nemici da combattere.

Con buona pace delle affermazioni idiote e offensive della strana coppia che risiede alla Casa Bianca (Trump e Vance) sugli “europei scrocconi che derubano gli americani”, sono proprio questi ultimi che vivono “a scrocco” dei primi, e dei tanti altri che finanziano il debito e il deficit americani. Sono gli americani che vivono al di sopra delle proprie possibilità, solo grazie agli investimenti esteri che affluiscono negli Stati Uniti. E’ vero che gli europei non investono in difesa quanto dovrebbero, e che questo ha consentito anche a loro di avere un tenore di vita superiore a quanto avrebbero potuto permettersi se avessero dovuto preoccuparsi in autonomia della minaccia costituita prima dall’Urss e poi dalla Russia, ma è altrettanto vero che una parte consistente delle spese militari europee concorre ad acquistare beni americani e finanzia utili e posti di lavoro in quei settori.

Vedremo come reagirà l’Europa a questa tempesta scatenata da Trump sull’economia globale, la cui crescita a partire dagli anni Novanta è stata in larga parte dovuta al gigantesco incremento del commercio internazionale. Il mondo ha già conosciuto lunghi periodi di protezionismo e, nello specifico, l’economia americana è stata maggiormente caratterizzata dal protezionismo che dal libero-scambismo. Ma così non è stato a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, ovvero dalla nascita del “secolo americano”, di cui la preferenza per il libero scambio ha rappresentato un pilastro. L’ordine internazionale liberale sul quale esso si fondava non era solo la conseguenza di una supremazia militare e di una leadership economica degli Stati Uniti, ma rappresentava un vero e proprio “manifesto” per un mondo più pacifico, meno anarchico e più cooperativo, un manifesto dalla portata non meno epocale di quello redatto quasi un secolo prima da Marx ed Engels.

Se il libero scambio ha potuto affermarsi e istituzionalizzarsi, ciò è stato possibile perché riposava sulle garanzie americane, era la scelta di questo regime da parte di Washington, affermate in maniera bipartisan dalle diverse Amministrazioni che si sono avvicendate alla Casa Bianca dal 1944 in poi, a fornire credibilità e fiducia nei delicati meccanismi del commercio internazionale. Ripudio della guerra d’aggressione e libero commercio sono state le colonne ideologiche dell’ordine liberale che ha consentito agli Stati Uniti di far sì che la loro egemonia incontrasse un così basso livello di opposizione da parte degli altri attori del sistema internazionale. Sono queste le colonne contro cui Trump – un novello Sansone, fanatico tanto quanto il primo – si sta scagliando con furia, letteralmente, iconoclasta. Siccome non bastavano il ritorno della guerra in Europa, graziosamente offerto da Vladimir Putin, e il dispregio della legge internazionale che vediamo in scena in medio oriente, ecco il colpo finale nei confronti della dimensione economica dell’ordine internazionale.

La via del protezionismo, inevitabilmente, ci trascina indietro nel tempo, a quegli anni Trenta che furono caratterizzati da conflitti ideologici furibondi, guerre senza quartiere ed aree economiche esclusive, corollario delle sciagurate sfere di influenza. Se la civilizzazione del sistema internazionale è passata attraverso la preferenza per la democrazia liberale, l’economia di mercato aperta e competitiva e la società aperta e plurale, il ritorno delle autocrazie plebiscitarie, degli oligopoli e dei protezionismi e delle derive identitarie sappiamo già dove ci (ri)porterà. Il discredito delle istituzioni internazionali, la svalutazione della parola data e degli impegni solennemente assunti, il divorzio compiaciuto della narrazione dalla realtà sono tutti sintomi che elevano la conflittualità riducendo lo spazio della ragionevolezza e financo della ragione. Questa è la vera economia di guerra nella quale Trump ci sta trascinando.

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