Testacoda Ventotene. Il mal di pancia di Roma per i meloniani veneti, che sconfessano Giorgia e votano come il Pd

Succede per una risoluzione passata all’unanimità in Consiglio regionale, a favore di “un’Europa a modello del Manifesto e dei padri fondatori”. I decani di FdI chiedono spiegazioni. I veneti allargano le braccia: è stata messa in calendario il giorno prima del discorso di Giorgia

Cortocircuito Ve-Ve. Veneto più Ventotene, variante meloniana. Perché mentre Giorgia, a Roma, proclama che “l’Europa che voglio non è quella di Ventotene”, succede che a distanza di una settimana, su al nord, viene smentita dal suo stesso partito. Che in Consiglio regionale ha votato a favore di una risoluzione illuminata, che conclude il suo ragionamento così: “Chiediamo al nostro governo di sostenere in tutte le sedi europee la richiesta di avviare le riforme necessarie alla nascita di una nuova Europa, sovrana e democratica, secondo il modello federale indicato dal Manifesto di Ventotene e dai padri fondatori”. Capolavoro. La firmeremmo anche noi.

E non a caso, nell’aula veneta l’hanno approvata tutti. All’unanimità. Dal Carroccio a Fratelli d’Italia, passando per il Pd. Che naturalmente si è intestato la vittoria – anche se la risoluzione intitolata “Gli enti regionali e locali per un’Europa solidale e di prossimità”, altro notevole bipolarismo interno, era stata presentata dal leghista Marzio Favero. Com’è possibile tutto questo? I primi a chiederselo sono i decani vicini a Giorgia, giù a Roma. Oggi la linea è quella del basso profilo, no comment e andiamo avanti. “La risoluzione non è sul Manifesto, che viene citato al suo interno”, cerca di minimizzare Raffaele Speranzon, senatore di raccordo tra territorio e capitale. “Tuttavia riguarda dei contenuti comunitari ampiamente condivisibili: il testo definitivo è stato modificato proprio per precisare che ci si riferisce soltanto a determinate parti dello storico documento, e non al Manifesto nella sua interezza”.

Un Ventotenino, insomma. E proprio il testo definitivo è stato frutto della sintesi tra i consiglieri dem e quelli meloniani: questi ultimi avevano valutato anche degli emendamenti più sostanziali, taglia e cuci, per tutelare le parole di Meloni. Alla fine però hanno lasciato perdere. “La risoluzione in quel modo sarebbe passata a maggioranza semplice, senza il centrosinistra”, spiega Joe Formaggio, l’unico tra i Fratelli a sollevare la questione in aula. “Ho seguito la linea del partito, e dunque votato anch’io a favore. Ma tra il valore simbolico dell’unanimità e la lealtà a Giorgia, è stata fatta una scelta chiara. Se finiamo a esprimerci come il Pd c’è qualcosa di sbagliato: siamo caduti nel trappolone della sinistra”.

Dietro le quinte infatti, la situazione ribolle. Formaggio non fa nomi, ma racconta che “alcuni parlamentari di FdI mi hanno chiamato completamente spiazzati”. Per sapere se il Veneto stesse dando i numeri. “E’ di dominio pubblico cosa ne pensa il partito. A partire dall’ex assessore Donazzan, oggi eurodeputata”. Così si è mosso anche Giovanni Donzelli, responsabile nazionale dell’organizzazione meloniana. Si dice che abbia chiesto chiarimenti a Lucas Pavanetto, capogruppo dei Fratelli in Consiglio. E che Meloni non sia affatto contenta dell’accaduto – come potrebbe esserlo? Al Foglio Donzelli non ha risposto, e come lui altri colleghi tra Camera e Senato: meno se ne parla, più questa storia passa in fretta e meglio è.

A rigor di cronaca, la contorta strategia dei meloniani veneti – “non l’abbiamo capita manco noi”, incalza Formaggio – va parzialmente giustificata da una serie di sfigatissimi eventi. La risoluzione originale in realtà era stata presentata il 13 marzo 2024, su iniziativa del Movimento federalista europeo a cui Favero, leghista vecchio stampo e giammai sovranista, si rifaceva. Per intenderci: all’epoca Salvini, in chiave elezioni, tirava ancora Zaia per la giacchetta. Non aveva ancora candidato Vannacci. Era un’altra stagione, un altro mondo. Nel frattempo, per un anno, la risoluzione è rimasta nel cassetto. Mai più calendarizzata. Fino al 18 marzo scorso: il giorno prima del discorso della discordia, quello di Meloni alla Camera. Coincidenza clamorosa, inimmaginabile. Le firme dei consiglieri di FdI giacevano lì, dimenticate da mesi. Di colpo sono diventate inopportune: ritirarle sarebbe una figuraccia, che altro fare? Così la classe dirigente locale va in tilt. Cerca sponde, prova a salvare capra e cavoli. Non ci riesce. Più del contenuto, del passaggio indulgente su Ventotene, è questo a preoccupare Giorgia. Oltre Roma, il partito balbetta. Se non c’è lei, può succedere di tutto. Perfino votare come il Pd.

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