Taglie revocate, ostaggi e minerali. Così la compravendita di Trump arriva fino a Kabul

Gli Stati Uniti revocano la taglia da 10 milioni di dollari che pendeva sulla testa dell’attuale ministro degli Interni dell’Afghanistan Sirajuddin Haqqani e quelle nei confronti di due suoi familiari. Un tentativo mettere le mani su una quota del ricco forziere minerario afghano

E’ ormai noto: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump applica un approccio transazionale, basato su un calcolo dei costi e benefici di ogni azione compiuta, soprattutto in politica estera. La novità degli ultimi giorni è che il suo pragmatismo si spinge molto lontano, arrivando fino a Kabul. E non è un passo da poco, considerando che dall’agosto 2021 a dominare sull’Afghanistan sono, nuovamente, i talebani e operare aperture nei loro confronti è una decisione da prendere tutt’altro che a cuor leggero. Eppure, così è stato: gli Stati Uniti hanno infatti revocato la taglia da 10 milioni di dollari che pendeva sulla testa dell’attuale ministro degli Interni dell’Afghanistan Sirajuddin Haqqani e contestualmente quelle da 5 milioni di dollari nei confronti di due suoi familiari. Il gruppo che guida il paese ha subito rilanciato la notizia attraverso i propri canali social mentre da parte statunitense non sono arrivate conferme ufficiali, anche se la somma di denaro non è più menzionata sul sito dell’Fbi. Haqqani, oltre a essere un funzionario di altissimo livello dell’attuale esecutivo talebano, ha guidato per anni la rete terroristica che dal suo clan prende il nome ed è stato il mandante di decine di attentati, suicidi o meno, anche contro truppe statunitensi.

Facendo un passo indietro, questa notizia si può legare a quanto avvenuto pochi giorni prima in Afghanistan. In compagnia dell’ex ambasciatore americano a Kabul, il funzionario americano responsabile per gli ostaggi, Adam Boehler, si è infatti recato nella capitale afghana per trattare con successo il rilascio di un cittadino degli Stati Uniti in mani talebane dal 2022. Si è trattato del primo viaggio di un rappresentante americano in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe statunitensi. E’ possibile che tra le condizioni poste dal movimento fondamentalista per la liberazione dell’ostaggio vi fosse anche quella di una riduzione, per quanto simbolica, della pressione internazionale applicata sui suoi più alti rappresentanti. In fatto di prigionieri, già Biden si era mosso nelle ultimissime ore del suo secondo mandato da presidente: a gennaio di quest’anno si è perfezionato lo scambio tra due cittadini statunitensi detenuti in Afghanistan e un cittadino afghano detenuto negli Stati Uniti e accusato di terrorismo e narcotraffico. Una prima apertura, a cui si aggiungono quelle più corpose che sta operando Donald Trump.

Guardando a questi ultimi sviluppi dal lato afghano, bisogna dire che di recente Haqqani ha iniziato a porsi come una figura pragmatica all’interno dei talebani e di rottura rispetto alle linee più intransigenti del leader Hibatullah Akhundzada. Ecco allora che la sua rimozione dalla lista degli arcinemici di Washington si potrebbe leggere anche come un tentativo da parte dell’Amministrazione americana di alimentare le tensioni interne al movimento fondamentalista, che in più di un’occasione si è dimostrato tutt’altro che monolitico. Una lettura forse troppo machiavellica, mentre più convincente appare quella che vedrebbe Trump impegnato a ottenere risultati di breve periodo dalla relazione con i talebani – come, ad esempio, evitare che l’Afghanistan diventi una base di partenza per attacchi contro il territorio statunitense, la liberazione degli ostaggi ancora a Kabul o la restituzione di almeno parte dell’arsenale a stelle e strisce abbandonato nel paese asiatico.

Obiettivi immediati a cui se ne associano altri di più ampio respiro, come mettere le mani su una quota del ricco forziere minerario afghano. Il ministero delle Miniere e del Petrolio dell’Afghanistan ha infatti appena dichiarato che, da quando i talebani sono tornati al potere, i maggiori investimenti nel settore minerario nazionale sono stati effettuati da aziende provenienti da Uzbekistan, Cina, Turchia e Iran, per un valore totale stimato di circa otto miliardi di dollari. A fare affari sono quindi per ora i vicini regionali del paese asiatico o le controparti che per prime hanno iniziato a effettuare aperture, anche politiche, nei confronti dei signori di Kabul, Cina su tutte. Per ora sembra lontano sulla linea dell’orizzonte il momento in cui in questa lista si troverà anche il nome degli Stati Uniti, ma Trump ha abituato ad accelerate tanto inattese quanto improvvise.

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