Michele Pasotti dirige un’esecuzione limpida e storicamente informata, con Mauro Borgioni come Orfeo di riferimento. Alterna il podio (che non c’è) con la sua sedia da tiorbista. Fa un Orfeo scabro, senza effetti speciali ed effetti “ba-rock”, ma non rinunciatario né negli abbellimenti né nel ritmo teatrale
Siamo passati da colonizzati a colonizzatori, ed è un’ottima notizia. La nostra quarta sponda musicale era il gran mondo delle HIP, “historically informed performance”, dove per decenni siamo stati degli importatori anche quando si trattava del repertorio italiano. Invece da qualche anno abbiamo iniziato a esportare, e senza problemi di dazi. Ennesimo caso, L’Orfeo di Monteverdi che mercoledì è partito per una tournée europea, e in sedi anche assai prestigiose, dal Fraschini di Pavia: italiano il complesso La Fonte Musica, italiano il suo direttore-fondatore-tiorbista Michele Pasotti, italiano o italianizzato il cast. E qui non si tratta di fare del sovranismo prêt-à-écouter. Il punto è che l’opera italiana è, appunto, in italiano, e capirne e farne capire il testo è tanto più importante quanto più si risale alle sue origini.
Figuriamoci con la prima opera del divin Claudio, che non è il primo titolo di una storia lunga quattro secoli; ma il primo capolavoro, sì. L’altra sera il libretto (bellissimo, per inciso) di Alessandro Striggio è pervenuto tutto e giusto per pronuncia, doppie, aspirate, e di conseguenza per accenti. Risolto il rebus di ogni Monteverdi, e di questo in particolare: trovare il giusto equilibrio fra “l’oratione” e “l’armonia”, insomma fra parole e musica. “Recitar cantando”, do you know? Certo, il Fraschini aiuta, perché è un teatro piccolo e dall’acustica eccellente: d’altronde, L’Orfeo non fu pensato per un teatro d’opera, anche perché ancora non esistevano, ma per una sala del Palazzo Ducale di Mantova, benché disgraziatamente non sappiamo di preciso quale. Non tutti i cantanti della compagnia hanno voci grandi né belle, ma tutti, fino all’ultima ninfa o pastore o deità scandiscono le parole divine, comprese quelle dei cori; e tutti sono educatissimi, precisi e, ovvio, storicamente informati.
Si concedono perfino, in un’esecuzione in forma di concerto, quel po’ di recitazione possibile. Qualcuno va citato perché spicca particolarmente, come l’Apollo di Raffaele Giordani, il Primo Pastore di Massimo Altieri, voci tenorili bellissime entrambe, la Messaggera sobria ma coinvolgente di Alena Dantcheva, la raffinatissima Proserpina di Francesca Cassinari, eccetera. E poi c’è Mauro Borgioni che oggi è senza se e senza ma l’Orfeo di riferimento: timbro pieno, fraseggio vario, dinamica sfumatissima, presenza scenica, secchiate di carisma, un “Vi ricorda, o boschi ombrosi” danzante e piacione, un “Possente spirto” padroneggiato benissimo, eccetera. Eccellente.
Pasotti alterna il podio (che non c’è) con la sua sedia da tiorbista. Fa un Orfeo scabro, senza effetti speciali ed effetti “ba-rock”, ma non rinunciatario né negli abbellimenti né nel ritmo teatrale (anche qui: eliminare l’intervallo aiuta, alla fine sono solo cento minuti di musica – e che musica – a portata di ogni vescica). A me è sembrato coerente e convincente, e in più di un punto commovente nella sua difficilissima semplicità: ma si sa che ars est celare artem. Strumentisti impeccabili, anche i cornetti e gli ottoni (giusto un attacco un po’ slabbrato nella Toccata, ma succede sempre), meravigliosa l’arpa doppia di Margret Koell. Sorpresa nella sorpresa, la sala piena, oddìo, almeno la platea, e con un’età media meno egizia del solito, anche con incontri e agnizioni fra baroccari appositamente convenuti. Vero che Pasotti and friends giocavano in casa perché hanno base a Pavia, ma è un buon segno. Proprio come questo Monteverdi limpido, genuino, italiano, poche volte così “nostro”. Eccolo qui, l’unico sovranismo che ci piace: quello della bellezza.