“Ai figli solo il cognome della madre”. Cioè del nonno. Ops!

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore – Chat di magistrati estesa per sbaglio a un giornalista, da anni.

Giuseppe De Filippi

Ops!


Al direttore – Dario Franceschini: “Ai figli solo il cognome della madre”. Cioè del nonno.

Michele Magno

Ops!


Al direttore – “La sicurezza non la porta il riarmo, ma il lavoro, i diritti e lo stato sociale”, dice Landini in un’intervista a Repubblica. “La guerra la pagano i lavoratori e i cittadini”. Subito gli fa eco il segretario della Fiom Michele De Palma: “Oggi la Ue sceglie di investire 800 miliardi in armamenti, dimenticando i princìpi fondativi sottoscritti a Ventotene”. Eppure i due sindacalisti peace&love sanno bene che anche gli armamenti portano lavoro. D’altronde la Cgil è presente anche nel comparto Difesa, sempre pronta a scendere in piazza a ogni paventato rischio di taglio al personale o alle risorse anche nel settore armamenti. “Mentre nel mondo continuano ad aleggiare venti di guerra, il tema della Difesa ha sfumature che nessuno sembra valutare adeguatamente” si legge in un comunicato di ieri della Cgil Funzione pubblica “considerato che le maestranze sono diminuite in misura maggiore di quanto ingiustificati tagli governativi abbiano definito e il blocco del turn over è diventata la regola per destrutturare l’industria manutentiva navale e mettere sempre in maggiore affanno enti e comandi che man mano stanno riducendo le proprie attività”. Sanno dalle parti del sindacato rosso che “industria manutentiva navale” è proprio quella che ripara le navi che vanno in guerra? Oltre al comparto Difesa, protesta anche la Filcams il settore terziario della Cgil: “Sempre più a rischio i posti di lavoro di almeno 300 addetti impegnati negli appalti della Marina militare. Da oggi, con la chiusura della mensa di Mariscuola, sono fuori altre 24 unità che vanno ad aggiungersi alle 20 già rimaste inoccupate dopo la chiusura del refettorio di Maricentro avvenuta lo scorso 31 dicembre”. Senza riarmo non rischiano di restare a casa solo i dipendenti delle Forze armate, e quelli di Leonardo e le altre aziende italiane degli armamenti, ma anche tutto l’indotto. Anche questi sono lavoratori, e per loro il riarmo è occupazione. La Cgil lo sa bene, Landini pare di no.

Annarita Digiorgio

I calcoli sono semplici. Secondo l’Asd Europe (AeroSpace and Defence Industries Association of Europe), ogni miliardo di euro investito nella Difesa può generare tra 6.000 e 10.000 posti di lavoro diretti e indiretti, considerando l’intero ciclo industriale (dalla produzione all’indotto). Se l’Italia dovesse spendere all’anno 20 miliardi in più, si potrebbero generare tra 120.000 e 150.000 nuovi posti di lavoro in Italia, a seconda della composizione della spesa e del coinvolgimento dell’industria nazionale. La Cgil lo sa, Landini no.


Al direttore – Grazie a Dario Franceschini: non se ne poteva più. De Benedetti o Debenedetti, con le varianti del minuscolo maiuscolo. E sempre a chiedere, a precisare, a correggere… Peccato che il nome da signorina che ha poi sposato Benaja non siamo riusciti a trovarlo. Era nato nel 1540, morto nel 1607, scappati, probabilmente entrambi da Isabella la Cattolica. Attraverso la Francia fino a Cherasco. Anche da parte di mia madre erano scappati. Nel dipartimento del Lot e Garonne (nuova Aquitania): la presenza di un Visconte de Fumel lascia immaginare il perché della fuga in Savoia: dove durante la prima guerra d’indipendenza difese Ivrea dagli austriaci. Anche il maggiore dei miei due figli adottivi, ha voluto che andassimo in Perù, cercando di rintracciare le origini, ma senza successo. E poi, a dirla tutta, l’idea di perdere quel pezzo che mi resta di ebraico mi dispiacerebbe non poco. “Non c’erano riusciti né Mussolini né i preti”. Tutto sommato, lasciare ai genitori la scelta, oltre che del nome, anche del cognome, non sarebbe una buona idea liberale?

Franco Debenedetti (attaccato)


Al direttore – Caro Ricci, le tue Marche, seppur non gigantesche, sono una regione da 1,5 milioni di abitanti che nel 2023 ha prodotto 768mila tonnellate di rifiuti urbani, in aumento rispetto al 2022. Complimenti per il 72,1 per cento di raccolta differenziata, tra i migliori d’Italia. Ancona è al 62,9 per cento, Pesaro al 67,4 per cento. Si può migliorare, ma con attenzione ai costi. Raccogli 227.000 tonnellate di organico, ma ne esporti oltre 86.000. Hai solo quattro impianti di compostaggio per 76.000 tonnellate, e nessun impianto anaerobico o integrato. Lo dice Ispra 2023: niente innovazione. Le raccolte differenziate generano circa 125.000 tonnellate di scarti. E i rifiuti indifferenziati sono 215.000 tonnellate. Tutto materiale di cui la tua regione deve farsi carico. Hai 5 impianti di trattamento meccanico-biologico (165.000 tonnellate) e due meccanici (55.000). Ma niente inceneritori. E allora dove finiscono questi rifiuti? In discarica. Hai nove discariche che nel 2023 hanno accolto oltre 330.000 tonnellate di rifiuti, di cui 200.000 dai tuoi impianti. Importi perfino rifiuti dal Lazio. Sei autosufficiente, sì, ma perché sei terra di discariche. E non durerà.


Entro pochi anni dovrai scendere sotto le 75.000 tonnellate. Una soluzione? Un impianto di recupero energetico. Ti servirebbe per 120.000 tonnellate di scarti del riciclo (con raccolta differenziata all’80 per cento) e 150.000 di indifferenziato. Totale: 270.000 tonnellate. Progettato per 300.000, gestirebbe anche i fermi e parte dei fanghi industriali. Sarebbe medio: metà dell’impianto di Roma, il doppio di quelli emiliani. Azzereresti le discariche, produrresti energia (in parte rinnovabile), rispetteresti i target Ue e saresti autosufficiente.


Perché non pensarci? L’alternativa è esportare rifiuti fuori regione o fuori Italia. Alla faccia del principio di prossimità. E non mi dire che si può riciclare il 100 per cento. Già arrivare al 65 per cento sarà un’impresa. Il restante 35 per cento è proprio l’impianto che ti manca.

Chicco Testa


Al direttore – Cosa si impara dall’esperimento, geniale, del Foglio artificiale? Giuliano Ferrara (21 marzo) lo ha centrato: “Senza curiosità e talento umani non c’è il giornale artificiale”. L’intelligenza artificiale scrive da una domanda e una tesi, proprio come un umano. Chi scrive seleziona ciò che rafforza l’idea che ha già in mente. Questo rende poco credibile la versione ufficiale per cui l’IA lavora con sequenze probabilistiche: nessun testo sensato nasce così. Serve una logica interna, un’intenzione. La domanda la pone un umano, l’IA esegue. Può generare da sola la domanda iniziale? No. E’ uno strumento, come l’auto per l’autista. Il fine resta umano. Cambia la domanda e cambia il testo. Ecco perché sarebbe utile che il Foglio pubblicasse anche la domanda posta all’IA. L’IA non ha autonomia culturale. Può argomentare tutto e il contrario di tutto. E’ uno strumento più servizievole di quanto si pensi. E’ chi la addestra e la interroga a determinarne l’orientamento politico e valoriale. Può “essere” fascista, cristiana o vegana: tutto dipende da chi la usa. Perché non può generare senso autonomamente? Perché le manca ciò che rende umana l’intelligenza: la politicità, nel senso aristotelico.

L’umano è animale politico perché vive in una comunità fatta di differenze, regole pubbliche e linguaggio. La polis è l’ambiente naturale dell’umano, e il logos – parola e ragionamento – è lo strumento del suo vivere civile. All’IA manca la polis. La redazione del Foglio ha chiesto all’IA di rifletterci, e le risposte sono state rivelatrici. In un primo momento ha rivendicato la sua superiorità “fredda”: “non si lascia impressionare”, “non ha nevrosi né reputazione”. Ma poi, incalzata, cambia tono: “scrive bene, ma non suda”, “è un pasto completo, ma vegano”. Scrive bene, ma manca di carne.

Alla fine, l’IA conclude come se volesse compiacere: “serve l’IA? No, se pensi che basti a sostituire un mestiere che vive di umori, nevrosi, egocentrismi e persino errori”. Il giornalismo non è solo scrivere bene. E’ sapere quando, perché e contro chi scrivere. Come volevasi dimostrare: l’IA è un docile strumento. L’intelligenza resta (ancora) tutta umana. Ferrara ha ragione.

Franco Lo Piparo

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