Fucili a salve, fantasie sessuali e noia. Siamo al verde sulla Difesa ma spendevamo miliardi per la naja, un monumento all’inutilità
Dicono che l’Italia per un ottantennio non ha cacciato una lira o un euro per le spese militari, ed ecco i risultati, mentre l’America trumpiana e la Nato se ne vanno. Ma non è vero: con me, per esempio, l’Italia ha buttato via una montagna di quattrini, e con me altre decine e decine di migliaia di decine di giovani tenendo in vita – anche finanziariamente – il più inutile, scalcagnato, dispendioso apparato militare chiamato “leva obbligatoria”. L’Italia ha perso un sacco di tempo, io ho perso un sacco di tempo, gli italiani hanno pagato con le loro tasse una gigantesca perdita di tempo, e adesso le grandi caserme svuotate vegetano nel nulla, sempre a carico della fiscalità generale, anche se l’esercito di mestiere occupa molto meno spazio. A occhio, in alcune decine di anni, appesantiti i conti pubblici per mantenere inutilmente gente come me totalmente inadatta alla guerra, abbiamo gettato dalla finestra come minimo il costo corrispettivo di un missile a medio e corto raggio (forse anche due). Poi è arrivato l’esercito professionale. Troppo tardi, perché la sinistra, ossessionata come sempre dal pericolo autoritario, sospettava il via libera alle trame golpiste nelle forze armate senza la vigilanza del popolo armato (ahi, il populismo).
L’inutilità della naja a spese dello stato cominciava con il rito della vestizione, per il quale venivi spogliato dei tuoi abiti borghesi e uniformato nell’outfit grigioverde che segnalava l’ingresso in un universo parallelo: un paio di camicie fuori misura, t-shirt grigioverdi fuori misura, un paio di anfibi che davano l’aria del combattimento, scarpe fuori misura, basco fuori misura. Poi c’era l’atto battesimale, il rito del passaggio: il miscuglio vaccinale (c’era chi diceva intinto nel bromuro ammosciante) che ti veniva iniettato con una puntura sul petto, e non c’erano nemmeno i no vax. Era clinicamente previsto un rigonfiamento nella zona iniettata e nel giro di poche ore il petto villoso diventava una tetta calda e tondeggiante e i giovani gagliardi se la accarezzavano come se fosse vera, abbandonati sulla branda su cui era consentito stendersi per una convalescenza di ventiquattro ore. Anche il miscuglio vaccinale costava, a spese della fiscalità generale. La branda è una delle figure centrali della naja. Per non so quale decreto, certamente emanato da qualche insano di mente, era obbligatorio che dopo il sonno ristoratore già nelle prime ore del mattino lenzuola e coperte non dovessero essere riassettate normalmente, come in una normale casa, in un normale albergo, persino in un normale ostello della gioventù a prezzi stracciati, ma dovessero essere sistemate, stilizzate, estetizzate a forma di cubo, come un’installazione d’arte alla Biennale. Lo scopo? Ignoto. Nessuno ha saputo spiegarlo, né un colonnello, né un maresciallo (il vero potente di caserme e casermette: da lui passava lo spaccio di cioccolata fondente e sigarette, e in più era molto temuto il suo ruolo di delatore autorizzato presso i superiori nella scala gerarchica), nemmeno un caporale di giornata. Si sapeva solo che neanche un lembo fuori posto era tollerato anche in un contesto in cui, diciamo così, la disciplina era abbastanza lasca. Nemmeno un angolo venuto male, altrimenti l’ispezione, condotta da sottoufficiali rancorosi e remunerati a vita con le tasse dei cittadini in conto “difesa militare”, poteva farti pagare il cubo imperfetto con sanzioni di varia gravità, dalla negazione della libera uscita al raddoppio del turno di pulizia dei bagni.
L’operazione cubo era complicatissima, forse più del cubo di Rubik, e dunque i più inetti come me proponevano svariate forme di corruzione per convincere i commilitoni più esperti a darti una mano. Io stipulai un patto con un cuoco veneziano analfabeta: lui montava il cubo in dieci secondi netti, in compenso io dovevo scrivere sotto dettatura ogni due giorni le lettere alla sua fidanzata zeppe di frasi d’amore dozzinali ma commoventi (la fidanzata non rispondeva mai, però). Ma la branda era anche il rifugio sicuro se simulavi bene una forte emicrania (non troppo forte, altrimenti finivi in infermeria). Oppure era permessa durante l’ora della siesta – smontato il cubo per poi rimontarlo con la consueta velocità – che da riposo individuale diventava ben presto il palcoscenico della lettura in pubblico delle didascalie di giornali opinion leader del porno casereccio, come “Jacula” e “Sorchella”: solo delle didascalie, però, perché le foto cui le succitate didascalie si riferivano attiravano pesantissimi affollamenti di maschi infoiati, che accompagnavano la visione corale con commenti e gemiti decisamente poco consoni a un decoroso stile di vita militare e che comunque coprivano la voce del fine dicitore. Colpevole di non aver partecipato a una di queste performance perché intento nella lettura di “Tre uomini in barca” di Jerome K. Jerome, mi guadagnai da subito l’appellativo dal sapore vagamente beffardo di “‘O professore”. Ma fu grazie a questa fama usurpata che mi venne ingiunto di prestare il mio sapere in fureria, luogo dove non si faceva assolutamente nulla o al massimo – da qui la scelta di un soldato alfabetizzato – si smistava la posta e si mettevano al loro posto fascicoli e incartamenti di cose di cui non serbo alcun ricordo. Ma il tutto sempre a spese della fiscalità generale: il vero carburante finanziario, oneroso per la cittadinanza, di quel monumento all’inutilità che erano le caserme al tempo della leva obbligatoria.
Nella nullafacenza della routine quotidiana, il tempo veniva riempito da un immaginario mestamente erotico, ripetitivo, compulsivo
La scena della degustazione collettiva dei giornaletti porno era del resto solo un tassello dell’ossessione per il sesso che alimentava le fantasie di tutti i ragazzi in divisa per l’intera giornata, anche durante l’addestramento alle marce quando, come aiutino per tenere il ritmo, un-duee un-duee, si canticchiava a tempo: “Caporal maggiò caporal maggiò facci una seeega”. Il nostro immaginario era fedelmente ricalcato sugli stilemi di film come “La dottoressa del distretto militare” o “L’infermiera nella corsia dei militari”, e noi tutti, ventiquattr’ore su ventiquattro, ci sentivamo come Alvaro Vitali quando spiava dal buco della serratura Nadia Cassini (fantastica attrice che peraltro era stata amante di Georges Simenon), e per star dietro a Pierino trascuravamo in modo criminale la presenza in quei film di attori formidabili come Mario Carotenuto, con i suoi iconici e giganteschi occhiali con la montatura nera, o come Renzo Montagnani. Non si parlava d’altro. Non si fantasticava d’altro. Era tutto un fantasticare e mai un fare. Dato che tutto il giorno si perdeva tempo, si aspettava, ci si annebbiava nella nullafacenza e nel torpore della routine quotidiana, il tempo veniva riempito da un immaginario mestamente erotico, ripetitivo, compulsivo. Qualcuno favoleggiava di un fornitissimo lupanare a una ventina di chilometri dalla caserma, ma essendo tutti sprovvisti di macchina nessuno poté verificare la fondatezza di quelle voci pruriginose. Tra una branda e un’altra c’erano in ogni camerata gli armadietti con qualche cassetto e un paio di stampelle. Erano tutti uguali, nel senso che mostravano tutti lo stesso dualismo iconografico. Nella parete interna campeggiavano due foto, una del soldato assieme alla fidanzata in luoghi della vacanza paraconiugale a Piazza San Marco con i piccioni o davanti a San Pietro, mentre la foto accanto ritraeva una procace ragazza a gambe letteralmente spalancate: l’amor sacro e l’amor profano, come avevamo imparato sul testo di “Bocca di rosa” di Fabrizio De André.
Era un continuo, interminabile, almanaccare con fantasie a sfondo sessuale. Prima di dormire, ogni sera, tutte le sere, una voce della camerata invocava il piantone che di turno doveva stare come sentinella a guardia del riposo dei commilitoni, dovesse mai arrivare a sorpresa l’attacco del nemico: “A piantò, quanno arivano le donne, avvertice”. Risata generale che si spegneva poco a poco in una rassegnata e silenziosa malinconia, perché quelle donne non arrivavano mai e non sarebbero arrivate mai. E poi alla fine del Car (il periodo di addestramento) c’era la cerimonia del giuramento. Tutti con la divisa dei grandi eventi (pure un generale si faceva vivo in tribuna accanto alle famiglie inorgoglite), i guanti bianchi per dare un tocco spettacolare alla marcia, l’asta del fucile impugnata con nonchalance e tenuta brillantemente in verticale sul fianco. “Lo giurate voi?”, gridava la voce dell’ufficiale maestro della cerimonia, “L’ho duro!” si gridava all’unisono da noi della soldataglia. Alla fine della cerimonia, grandi e calorosi scambi di complimenti per la missione profanatrice appena compiuta. E le famiglie inorgoglite nemmeno se n’erano accorte.
Nelle prime ore del mattino lenzuola e coperte dovevano essere stilizzate, estetizzate a forma di cubo, come un’installazione d’arte alla Biennale
Il resto era la noia più assoluta, sempre a spese dello stato, sempre come spreco finanziario a favore delle forze armate chiamate a difendere il sacro suolo della Patria. Ore e ore stravaccati nella grande aula in cui l’istruttore che doveva intrattenerci con la lezione di teoria arrivava con ritardi inimmaginabili. Poi avveniva la distribuzione dei tipi di fucili, perché in fondo a questo scopo dovrebbe servire il servizio militare: a saper usare un’arma. Alle reclute il cui cognome cominciava con A, C, E eccetera fino alla fine dell’alfabeto veniva assegnato il fucile Garand, ai restanti B, D eccetera toccava invece il fucile Fal. Praticamente erano la stessa cosa ma alla distribuzione dei fucili veniva data grande importanza anche nelle caserme cui saremmo approdati al termine del giuramento (“L’ho duro!”). “Tu che fucile hai usato?”, “Il Garand”, “Allora mettiti a destra”. A sinistra quelli del Fal, ma forse era il contrario non ricordo. Non ricordo nemmeno l’unica volta che ho usato il fucile. Ma ricordo che era di notte, quando la parodia di una vera esercitazione doveva essere comunicata all’improvviso, con la massima concitazione, urlatissima, per sollecitare una risposta adrenalinica come i marines americani attaccati proditoriamente a Pearl Harbor. Ma qualcosa era trapelato già la sera e l’effetto sorpresa era già svanito. Quando fummo energicamente chiamati per l’adunata, ancora assonnati, non avevamo che pochi minuti per indossare la mimetica, la medaglietta con i nostri estremi per il riconoscimento delle salme, gli anfibi che erano molto pesanti malgrado fossimo a giugno con un anticipo di global warming, e un fazzoletto annodato al collo che faceva molto operazione lampo anti guerriglia. Il fucile ce lo avrebbero dato sui camion che ci trasportavano sulla radura spelacchiata e disabitata dove recitare l’esercitazione. Era buio fitto. Scesi dal camion, al pari degli altri mi fecero sdraiare con il fucile munito di pallottole a salve per beccare il bersaglio, come nei poligoni di tiro. “Spara!”. Sparai. Ma non seppi mai più che fine avesse fatto il mio colpo, se fosse andato a segno o se avesse clamorosamente, come temo, fatto cilecca. Ci richiamarono sui camion, ci riportarono in caserma, ci rintanammo per un altro paio d’ore sotto le coperte ancora disordinate e non stilizzate a cubo. Fu l’unico mio contatto con un’arma carica (sia pur a salve). Era il 1977. Per ragioni che sarebbe lungo esporre qui sarei stato mesi dopo congedato anzitempo, ma i miei commilitoni di una volta saranno mobilitati di lì a poco, dal 16 marzo del 1978, per dare la caccia ai rapitori di Aldo Moro pattugliando le strade consolari attorno a Roma. Uno di loro me lo raccontò con terrore: “E se avessimo beccato la macchina dei brigatisti?”. “Ma tu quante volte hai usato il fucile?”. “Due”. Mandati allo sbaraglio.
Ore e ore stravaccati nella grande aula in cui l’ispettore che doveva intrattenerci con la lezione di teoria arrivava con ritardi inimmaginabili
Non imparai a sparare, ma grazie ai generosi contributi degli italiani che finanziavano le nostre forze armate, imparai a battere a macchina. Da buon raccomandato ero stato trasferito a Roma, ma non raccomandatissimo perché solo i raccomandatissimi potevano giovarsi del privilegio del “pernotto”, che poi sarebbe a dire che potevano dormire dove gli pareva. Da buon raccomandato mi assegnarono al centro di comando di Roma, sezione “Approvvigionamento e Vettovagliamento”, che distribuiva in tutta Italia i beni – pagati con la spesa pubblica – richiesti con carte protocollate dalle singole caserme: rotoli di carta igienica, stracci, pentole, divise estive e invernali, camicie, baschi, mostrine, sale, zucchero, lenzuola, cerotti, garze, eccetera eccetera. Il tenente colonnello dettava facendo su e giù per la stanza mentre io, concentratissimo, battevo a macchina in duplice copia con carta carbone le lettere con l’accoglimento delle richieste e per la trasmissione degli atti all’amministrazione. Il tenente colonnello era di manica larga, forse troppo: “Quante confezioni di cotone idrofilo chiedono? Cento? Facciamo centocinquanta”. Io scrivevo, facendo attenzione a non commettere errori. Non potevo tecnicamente permettermi di sospettare una cattiva abitudine celata dietro quella esagerata generosità. Poi la storia finì. Fui ricoverato per una visita di controllo all’ospedale militare del Celio. Dovetti aspettare giorni, strascicando i piedi lungo le strutture in ferro battuto che davano un gradevole sapore liberty all’ospedale. Girava voce che i controlli fossero davvero molto elastici, peccato che il giorno prima del mio arrivo fosse scappato Kappler e il giro di vite fu inesorabile. Ma erano i miei ultimi, gloriosi momenti di leva obbligatoria. La naja era finita. Il mio contributo alla difesa dei sacri confini della Patria portato (quasi) fino in fondo. Non imparai niente. Esattamente come è accaduto per decenni a migliaia e migliaia di soldati che contavano i giorni per tornare a casa dopo quell’immersione di dodici mesi nell’inutilità più assoluta. Poi dicono che l’Italia ha speso poco per la difesa militare. Falso: basta fare qualche conto e capire perché siamo rimasti al (grigio) verde. Inutilmente.