I piccoli e incerti passi in avanti dell’Italia sull’utilizzo del congedo di paternità

“I dati sono incoraggianti e indicano che si sta intraprendendo un percorso che va verso una giusta direzione”, dice Alessandro Rosina, professore di demografia della Cattolica, “ma l’Italia deve fare di più”

L’Italia avanza sul congedo di paternità e i risultati cominciano a vedersi, nonostante si muova con l’andatura incerta di un bambino ai suoi primi passi. “Il cambiamento culturale è avvenuto e sta avvenendo ma ha bisogno di tempo e di politiche adeguate. Al momento il bicchiere è molto più che mezzo pieno”, dice al Foglio Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano. Secondo i dati Inps e Save the children, sono più di 3 su 5 i padri a utilizzare il congedo di paternità.

Il congedo di paternità, introdotto nel 2012 in Italia, ha lo scopo di favorire una equa ripartizione della responsabilità genitoriale. Dalla sua introduzione a oggi, il tempo di congedo si è gradualmente allungato, fino ad arrivare agli attuali dieci giorni per i padri lavoratori, dipendenti privati e pubblici, pagati al 100 per cento. A questo proposito, il professor Rosina dice: “Dieci giorni sono pochi. Dobbiamo portare il congedo di paternità allo stesso livello del congedo di maternità”, che ora è cinque mesi, tre mesi dopo la nascita del figlio più 2 che (se si desidera) possono corrispondere agli ultimi due mesi di gravidanza, oppure andarsi ad aggiungere ai primi tre dopo il parto. “Sicuramente non si può fare domani, ma la prospettiva culturale del paese sembra questa”. Tuttavia, bisogna tenere in considerazione che “il passaggio del congedo a dieci giorni (che all’inizio era di due giorni) non è una virtù dell’Italia. Il nostro paese si è semplicemente allineato a una decisione europea”, ricorda Rosina, “non abbiamo fatto niente di più del minimo che l’Europa ci ha chiesto. Dovremmo fare di più”.

Anche il suo utilizzo è cresciuto con il passare del tempo, passando dal 19,2 per cento dei padri aventi diritto nel 2013, al 65,5 per cento nel 2023. “E’ più che positivo che i 2/3 dei padri scelgano di utilizzare il congedo di paternità, soprattutto considerando che fino a pochi anni fa questa possibilità era poco valorizzata a causa della percezione negativa da parte dei datori di lavoro, che lo vedevano come un segnale di scarso attaccamento alla professione”, dice il professor Rosina. “Avere una crescita che ha portato la maggioranza di chi ne ha diritto a utilizzarlo vuol dire essere una direzione giusta, che va ulteriormente favorita”.

Secondo i dati Inps, si riscontrano notevoli differenze nell’utilizzo, in base a diversi fattori, quali il territorio di residenze, la dimensione aziendale e il tipo di contratto lavorativo. A usufruire maggiormente del congedo sono i padri che hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato (70 per cento, circa), a fronte di quelli con un contratto a tempo determinato (il 40 per cento), o di quelli con contratto a termine, come, per esempio, gli stagionali (il 20 per cento). Anche la dimensione aziendale è tra i fattori che influiscono sull’utilizzo del congedo. Infatti, il numero dei lavoratori presso aziende con più di 100 dipendenti (80 per cento) è il doppio rispetto a chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti (40 per cento). Un’altra discriminante è il posizionamento sul territorio nazionale. Al nord, il congedo viene utilizzato dal 76 per cento dei padri che ne hanno diritto, una percentuale quasi doppia rispetto al sud e nelle isole, che registrano il 44 per cento. Al centro, invece, viene utilizzato dal 67 per cento.

Il potenziamento del congedo di paternità comporta, inoltre, un forte impatto su diversi aspetti, soprattutto sull’occupazione femminile e la bassa natalità. Come ricorda il professore dell’Università Cattolica, “la nascita di un figlio può frenare l’occupazione femminile. Soprattutto in un paese che ha, complessivamente, carenza di politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro e di servizi per l’infanzia. Questi strumenti sono più deboli in Italia rispetto ad altri paesi.” Quindi, “il congedo di paternità (insieme agli altri strumenti) consente di migliorare la condivisione nell’attività di cura di un figlio e coordinare tempi di vita e tempi di lavoro all’interno della coppia, con meno carico femminile e più possibilità per entrambi di poter gestire l’impegno lavorativo e la dimensione famigliare”. Anche perché, sottolinea il professore, “l’impatto dell’arrivo di un figlio sul lavoro e sulla carriera della donna porta a una bassa natalità, oltre che a una bassa occupazione femminile”.

Migliorare il congedo di paternità significa, inoltre, come ricorda il professor Rosina, “rendere solido il rapporto tra padri e figli in un momento cruciale dello sviluppo. Se questo è solido sin dalla nascita è più funzionale nel corso della vita”. Il modello tradizionale, secondo cui a occuparsi dei figli devono essere solo le madri, è parte del passato, ma la sua ombra è ancora ben visibile. Potenziare questi strumenti significa accendere una luce.

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