Il protezionismo sulle armi penalizzerebbe l’Italia e rafforzerebbe la dipendenza dagli Stati Uniti e la frammentazione europea. Più costi, meno cooperazione e isolamento commerciale: l’illusione di un’autarchia militare sostenibile
No al riarmo. Ma se proprio si dovesse scegliere quella strada, che sia un riarmo made in Italy. E’ questa l’ultima posizione assunta dalla Lega e che stuzzica anche la presidente del Consiglio: escludere ogni vincolo europeo che possa imporre all’Italia di acquistare sistemi d’arma prodotti in altri paesi europei. Una via che tuttavia ci porterebbe a ripetere i gravi errori del passato e del presente, e non offrirebbe una reale sicurezza difensiva all’Europa e all’Italia.
Oggi l’Unione europea nel suo complesso spende quanto, o più, della Federazione russa per la propria difesa. Secondo i dati dell’International Institute for Strategic Studies rielaborati dall’Osservatorio dei Conti pubblici, il budget militare Ue è quasi il 20 per cento più elevato di quello russo: 547,5 miliardi di euro rispetto a 462. Un confronto condotto a parità di potere d’acquisto, poiché ovviamente i salari dei militari russi sono inferiori agli standard europei, come lo sono i costi di produzione di aerei caccia, missili, assetti navali e mezzi corazzati. Di fronte a questi numeri, ci si potrebbe legittimamente chiedere a cosa serva dunque il riarmo europeo. In realtà queste cifre nascondono la scarsissima efficienza con cui i fondi europei vengono spesi. Nonostante i quasi 100 miliardi di euro in più sborsati ogni anno, l’Unione europea continua infatti a sentirsi minacciata e vulnerabile nei confronti di Mosca. Questa condizione ha diverse ragioni, con un unico comune denominatore: l’Ue non è una singola unità statale, non dispone di forze armate federali, e probabilmente non ne disporrà mai. Ecco perché Lituania, Lettonia ed Estonia non possono sentirsi tutelate dall’esercito spagnolo o da quello italiano come sarebbero se l’Ue – come la Russia – rispondesse a un potere politico centrale. Oggi pesano la geografia, le diverse priorità nazionali in termini di sistemi d’arma e dominii strategici, nonché le sovrapposizioni che nascono dall’esistenza di 27 forze armate nazionali autonome. Dal momento che un’unione politica e un esercito europeo appaiono oggi irrealizzabili, la maggiore cooperazione tra le forze armate nazionali sullo sviluppo e l’acquisto di armi rappresenta oggi la mossa più efficace e allo stesso tempo realistica. Ed è proprio a questo che Rearm Europe punta, con i 150 miliardi di euro di prestiti comunitari.
Sono spesso citate le cifre riportate in uno studio della Munich Security Conference di alcuni anni fa, per cui gli stati Ue impiegano 178 diversi sistemi d’arma – terrestri, navali e marittimi – a fronte dei soli 30 modelli americani. Sui carri armati il rapporto è di 17 a 1, sulle fregate 29 a 4, sugli aerei da caccia 20 a 6. Più versioni significano costi più alti di sviluppo, di produzione, di acquisto e di manutenzione. Con il risultato di sperperare i fondi pagati dai contribuenti europei, di favorire la frammentazione e le piccole dimensioni nell’industria della difesa e di produrre armi che non sempre riescono a fronteggiare quelle rivali.
Appare quindi chiaro che il riarmo made in Italy non sarebbe una grande idea dal punto di vista economico. Ma non è l’unico motivo per cui si tratta di una proposta miope. L’erezione di barriere commerciali tra gli stati europei favorirebbe infatti solo gli Stati Uniti, favoriti da un mercato domestico oligopolistico di produttori di armi. Accentuando ulteriormente la dipendenza europea da Washington – già raddoppiata negli ultimi quattro anni secondo il Sipri – in un momento in cui l’allineamento degli interessi non è più scontato. Già oggi diversi paesi europei stanno ripensando i propri programmi di acquisto di armi Usa, a partire dagli F-35 che senza il supporto logistico e software americano non riuscirebbero neanche ad alzarsi in volo.
C’è un’ultima ragione per cui l’autarchia militare ci darebbe una zappa sui piedi. L’Italia è oggi è il sesto paese esportatore di armi nel mondo, in ascesa dalla decima posizione. Le nostre aziende – Leonardo e Fincantieri in testa – sono leader apprezzati in diversi mercati. Chiuderci al mercato internazionale avrebbe un’ovvia ripercussione sui nostri scambi, e sulla tecnologia e l’occupazione italiana.
Oggi i paesi europei cooperano troppo poco sulla difesa. Gli egoismi nazionali ancora primeggiano, e anche sui programmi futuri la svolta ancora non si vede. Sul caccia di sesta generazione due programmi paralleli – composti principalmente da paesi europei – si fanno concorrenza tra di loro. Allo scudo missilistico europeo a guida tedesca non hanno ancora aderito Francia e Italia per l’assenza dei propri missili tra i fornitori previsti. Sul carro armato europeo di nuova generazione Francia e Germania non sono ancora riuscite a trovare la quadra dal 2017, da quando le trattative sono iniziate. I prestiti europei condizionati a programmi e acquisti congiunti potrebbero essere la miccia per un vero cambiamento. Un’eventuale opposizione italiana in chiave autarchica sarebbe inspiegabile e controproducente.