Trump vs Reagan. L’ipotesi di un quinto volto sul Monte Rushmore

Il tentativo di impadronirsi della memoria storica. Ma per l’attore che diventò presidente le alleanze erano sacre e gli immigrati una risorsa

Se gli Stati Uniti decidessero che dopo un secolo è arrivata l’ora di scolpire il volto di un quinto presidente sul Monte Rushmore, con ogni probabilità riuscirebbero a trovare un accordo bipartisan solo su un nome: Ronald Reagan. Di questi tempi non c’è un tema di politica interna o estera su cui repubblicani e democratici riescano a condividere un pensiero comune. Ma il nome del quarantesimo presidente è diventato sinonimo dell’America che entrambe le parti, per ragioni diverse, si offrono di incarnare. Donald Trump indossa il mantello di Reagan per giustificare le proprie scelte politiche, che in buona parte probabilmente avrebbero suscitato orrore nel suo predecessore repubblicano degli anni Ottanta. I democratici, che all’epoca trattarono Reagan con lo sdegno che oggi riservano a The Donald, oggi invocano l’ex attore che conquistò la Casa Bianca come una sorta di divinità, utile da contrapporre all’attuale inquilino dello Studio Ovale per cercare di sminuirlo nel confronto.

Il risultato è un revival di Reagan che lo porterebbe facilmente a venir prescelto per affiancare, sulla celebre parete di roccia del South Dakota, i volti di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln. Fu giusto cento anni fa, nel marzo del 1925, che i legislatori del South Dakota approvarono la legge che concedeva l’utilizzo del Monte Rushmore per scolpire i quattro volti giganteschi. La cerimonia di inizio lavori avvenne due anni dopo, alla presenza di Calvin Coolidge, un presidente repubblicano che non ebbe problemi nell’accettare la scelta di quattro predecessori che provenivano da percorsi politici diversi. Incluso Roosevelt, che era morto da meno di dieci anni ed era in buona parte una “ferita” ancora aperta: dopo essere stato il ventiseiesimo presidente sotto la bandiera dei repubblicani, aveva rotto con il proprio partito e si era candidato di nuovo alla presidenza – senza successo – alla guida di un movimento politico da lui fondato. I lavori sulla montagna, avviati da un repubblicano, si conclusero nel 1941 e l’inaugurazione toccò a un presidente democratico, Franklin D. Roosevelt.

Era un’altra epoca, nella quale il duro confronto politico non impediva di arrivare a soluzioni bipartisan. Un’èra in cui nessun presidente avrebbe scherzato, come ha fatto talvolta Trump, sul fatto di “meritare di avere il mio volto scolpito sul Monte Rushmore”. E dove sarebbe stato impensabile un gesto come quello della deputata repubblicana della Florida Anna Paulina Luna, che a fine gennaio ha presentato in Congresso una risoluzione per stabilire per legge che Trump venga ritratto sulla montagna del South Dakota al fianco di Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln: il progetto di legge non ha molte speranze di passare, ma la Camera lo dibatterà presto.

Diverso sarebbe il discorso se venisse riproposto di discutere in Congresso di aggiungere come quinto volto quello di Reagan. Se ne era già parlato nel 1999, con l’ex presidente ancora vivo ma malato di Alzheimer e lontano da tempo dalla vita pubblica (morirà nel 2004). La proposta arrivò a essere votata alla Camera ma non passò. Oggi andrebbe diversamente perché quello di Reagan, per motivi contrapposti, è un nome che unisce le due parti politiche, a differenza per esempio di icone dei democratici come FDR o John F. Kennedy.

Trump ha piazzato alle sue spalle nello Studio Ovale una grande foto di Reagan sorridente. Un gesto da grande comunicatore che, in questo caso, il suo predecessore avrebbe probabilmente approvato con ammirazione: ogni volta che Trump fa una conferenza stampa seduto dietro all’antica scrivania “Resolute” nell’ufficio presidenziale o firma una raffica di ordini esecutivi, fotografi e telecamere si trovano a ritrarlo con dietro Reagan che sembra sorridere e benedire le scelte del successore.

L’unico volto sul quale si potrebbe arrivare a un consenso bipartisan per scolpirlo nel Monte Rushmore. La sua foto sempre alle spalle di Trump

Il 6 febbraio il presidente ha festeggiato il compleanno di Reagan dedicandogli parole di stima, che in realtà erano un altro tentativo di impossessarsi della sua eredità politica. Da un anno Trump sostiene che le sue scelte sono tutte legate dal “buonsenso”, e nell’onorare il predecessore lo ha definito come il presidente “che ha riportato il buonsenso a Washington e ha fortificato le cause della prosperità, della sicurezza, della difesa e di quella pace che coltivava con così tanta passione”.

Altre parole di ammirazione reaganiana Trump le ha spese nel discorso che ha fatto al Congresso a camere riunite, spingendo i democratici a rispondergli di lasciare in pace l’icona degli anni Ottanta. “Il presidente Trump – ha detto la senatrice del Michigan Elissa Slotkin, a cui il partito di opposizione ha affidato la replica ufficiale – ama promettere una ‘pace attraverso la forza’. E’ una frase che in realtà ha rubato da Ronald Reagan. Ma diciamolo con chiarezza: se Reagan ha visto lo spettacolo che è avvenuto nello Studio Ovale nei giorni scorsi (l’aggressione verbale al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ndr), si sarà rivoltato nella tomba”.

La Slotkin è solo l’ultima esponente democratica in ordine di tempo a ricordare ai repubblicani le gesta di Reagan, per sottolineare la distanza tra il partito di oggi e la tradizione da cui proviene. Strano destino per un presidente che ai suoi tempi veniva definito dai democratici dell’epoca come “crudele e spietato” per i tagli che aveva attuato al sistema del welfare, oltre a essere deriso per la sua politica fiscale e accusato di essere un pericoloso guerrafondaio che giocava con l’olocausto nucleare con le sue “Guerre stellari”. Qualche decennio dopo, gli storici hanno rivalutato quelle mosse che all’epoca divisero il paese e il mondo, i suoi ex nemici si sono ricreduti e tra i democratici c’è perfino un velo di nostalgia per l’epoca in cui il “cattivo” del momento aveva lo spessore umano e politico di Ronald Reagan.

Si è ricreduta anche Patti Davis, la figlia ribelle che scelse di non portare il cognome del padre che contestava, adottando quello della mamma Nancy. L’adolescente che sperimentava droghe per protestare contro i genitori e la giovane donna che prese le distanze dai repubblicani e si teneva alla larga dalla Casa Bianca di papà, oggi è una settantenne che sta rileggendo in chiave diversa quegli anni. Di fronte allo spettacolo di un Trump che si professa reaganiano e dei democratici che usano l’ex presidente per attaccare quello attuale, la Davis ha scelto di raccontare un Reagan inedito, domestico, intimo. In un articolo sul New York Times carico di tenerezza filiale, ha raccontato le parole con le quali il padre, sedendosi sul suo letto dopo l’ennesimo litigio, le raccontava le motivazioni profonde di quella carriera politica che lo teneva lontano dai figli. E nel rispondere alla Slotkin, Patti Davis ha mandato in realtà un messaggio a Trump per fargli capire quanto sia lontana la figura di Reagan da quella di The Donald: “La senatrice ha detto che mio padre probabilmente si rivolta nella tomba. La mia speranza è che invece sussurri dalla tomba e ricordi a chi ha il potere che l’America deve essere il faro che guida gli altri, deve brillare in modo luminoso per tutti, deve essere un paese che si protende oltre i propri confini per aiutare chi ha bisogno e rendere questo mondo un po’ più sicuro e forte. Lui ci vedeva davvero come una città scintillante in cima alla collina, un luogo a cui gli altri potessero guardare e di cui potersi fidare”.

Patti Davis, la figlia ribelle, di fronte allo spettacolo di Trump che si professa reaganiano, ha scelto di raccontare il padre in modo inedito, intimo

Da giorni gira sui social il video di un discorso del 1988 nel quale Reagan se la prendeva con i politici che volevano usare i dazi per affrontare le relazioni internazionali. “Il protezionismo – diceva il presidente – oggi è usato da alcuni politici americani come una forma di nazionalismo a buon mercato. Dazi e protezionismo sono una foglia di fico per chi non ha intenzione di mantenere la potenza militare dell’America e per coloro che non hanno la risolutezza necessaria per tener testa ai veri nemici, cioè quei paesi che vorrebbero usare la violenza contro noi o i nostri alleati”. Quello dei dazi è uno dei temi dove è più evidente la distanza che separa Reagan da Trump, nonostante i tentativi di quest’ultimo di appropriarsi del personaggio.

Il presidente degli anni Ottanta giudicava il mondo con una chiarezza e un idealismo che all’epoca venivano definiti naïf, ma che con il tempo si sono rivelati lungimiranti. La retorica dell’Unione Sovietica come “Impero del male” servì a Reagan ad aprire un dialogo innovativo con Mikhail Gorbaciov, senza cedere ad alcuna invidia per il sistema autoritario di Mosca (che invece Trump sembra provare quando si confronta con Vladimir Putin). Le alleanze per Reagan erano sacre e soprattutto con gli alleati per lui era fondamentale rafforzare gli scambi economici: niente a che vedere con quello che Trump sta facendo con il Canada o con l’Europa. Immaginare Reagan che attacca e umilia il presidente di un paese amico come Trump ha fatto con Zelensky sarebbe semplicemente impossibile.

La retorica dell’“Impero del male” servì ad aprire un dialogo innovativo con Gorbaciov, senza cedere all’invidia per il sistema autoritario

“Trump è l’opposto esatto di tutto ciò a cui teneva Ronald Reagan”, ha detto al Washington Post Chuck Hagel, un ex senatore repubblicano che lavorò nella Casa Bianca reaganiana ed è poi stato in tempi recenti ministro della Difesa in un’amministrazione democratica, quella di Barack Obama. “Reagan ispirava le persone e le portava a mettersi in insieme. Era una forza unificante, non un divisore. Dava un’altissima importanza alle nostre alleanze, sapeva che la forza dell’America deriva dalle sue alleanze, dalla Nato, l’Onu e tutte le istituzioni che abbiamo costruito”.

Poco o niente di quello che Trump propone sull’immigrazione sarebbe stato accettabile per Reagan, un presidente che dedicò proprio agli immigrati l’ultimo discorso pubblico, sottolineando come siano loro la vera forza del progetto americano. Qualche punto di contatto invece esiste quando si tratta delle scelte politiche che riguardano Washington e il governo federale. “Nella crisi che stiamo vivendo – disse Reagan nel discorso inaugurale del 1981 – il governo non è la soluzione ai problemi; il governo è il problema”. Il quarantesimo presidente si dedicò a ridurre l’apparato federale, a diminuire il numero delle leggi, ad avviare un’ampia deregulation. Ma nessuna delle sue azioni ha caratteristiche o modalità operative paragonabili a ciò che sta facendo Elon Musk per conto di Trump. Soprattutto per quello che riguarda i tagli in corso alla Cia, all’Fbi e in buona parte delle agenzie di intelligence americane: una situazione che Reagan non avrebbe mai permesso.

Si dedicò a ridurre l’apparato federale, ma con modalità operative non paragonabili a ciò che sta facendo Musk, specialmente all’intelligence

Forse il metro di misura più evidente della distanza tra Trump e Reagan è rappresentato dal rapporto non tanto con l’Europa in generale, ma in particolare con la Germania. E’ entrato nei libri di storia il discorso che Reagan tenne nel 1987 davanti alla Porta di Brandeburgo a Berlino, lanciando la sfida a Gorbaciov di fronte al Muro che divideva in due la città. “Mr. President, abbatta questo muro!”, fu l’esortazione di Reagan, che divenne realtà due anni dopo. Oggi il cancelliere tedesco in pectore Friedrich Merz, un grande ammiratore di Reagan e un politico con profondi legami con gli Stati Uniti, è costretto a prendere le distanze da Washington e ad alzare muri di fronte a un’America che abbandona gli alleati in Ucraina, mette in discussione la Nato, fa il tifo per l’estrema destra di Afd e strizza l’occhio a Mosca invece che a Berlino.

Reagan considerava i confini orientali dell’Europa come confini degli stessi Stati Uniti. Ricordava spesso nei suoi celebri discorsi che lungo tutta la frontiera della cortina di ferro l’occidente aveva schierato soldati che dovevano guardare verso est per il timore di essere attaccati, ma dall’altra parte del confine anche i soldati del blocco sovietico guardavano a loro volta verso est: in questo caso, per impedire alle persone di fuggire a ovest. Una retorica che Trump non sente nel proprio dna e che lo sta allontanando irrimediabilmente dall’Europa. Per questo il ritratto di Reagan sorridente appeso nello Studio Ovale è solo un’operazione di propaganda slegata dalla realtà.

Leave a comment

Your email address will not be published.