La grande letteratura è musica. Ragion per cui ogni grande scrittore ha la propria musica, la propria metrica, quel suono che gli appartiene. Giulia Lombezzi scrive teatro e ha quel tipo di scrittura che si muove, risultato di un ascolto di se stessi e di ciò che si legge
Il senso della musica è l’armonia – la cosiddetta “dimensione verticale”. Nella scrittura è lo stesso. Più che la trama, il testo. E soprattutto il sottotesto, ossia l’armonizzazione degli elementi – non ciò che viene detto, ma come viene detto, attraverso quale dialogo segreto di elementi. Insomma, il modo in cui uno scrittore tesse i suoi fili, il gesto con cui “tiene” tutto e ci porta a spasso. La differenza tra elencare frasi e scrivere è soprattutto questa, ragion per cui ogni grande scrittore ha la propria musica, la propria metrica, quel suono che gli appartiene. Saper scrivere è un fatto di orecchio. Saper leggere, anche: possiamo sicuramente dirci in grado di riconoscere “il suono Xavier Marìas”, “il suono Philip Roth”, “il suono Proust” – chi è nato nel Novecento ricorda senza dubbio una fenomenale puntata di Pickwick in cui Alessandro Baricco “suonava” Proust e al pianoforte ne mostrava musicalmente la sintassi. La grande letteratura è musica. Scrivere significa portare in sé il canto, una sensibilità per l’aria, l’indivisibile rapporto col rintocco del proprio stesso passo. Chi scrive teatro queste cose le sa.
Giulia Lombezzi scrive teatro e ha appena pubblicato il suo secondo romanzo, “L’estate che ho ucciso mio nonno” (Bollati Boringhieri, 318 pp., 17 euro) e ha quel tipo di scrittura che si muove. E’ una grande dote. E’ il risultato di un lavoro. E’ l’esito di un ascolto, di se stessi e di ciò che si legge. Con “scrittura che si muove” si intenda sia una scrittura che cerca di continuo la propria musica cioè la propria stessa verità – se scrivere è pensare una forma, questa forma non può che essere in movimento – sia una scrittura che sa sempre stare un passo avanti alle vicende che racconta. Ma bando alla ciancia tecnica, c’è tutto un romanzo dentro “L’estate che ho ucciso mio nonno”, la storia di un nonno despota che, rimasto vedovo, va a vivere con la figlia Marta e la nipote Alice. E al di là di ciò che racconta e di come Lombezzi lo organizza – e racconta sensazioni cui cerca sempre di dare un nome (lode a chi scrive cercando qualcosa che non sia solo la successione degli avvenimenti) – qui c’è, in senso stretto, una storia. “Togli la storia e non c’è più la letteratura”, predicava invano Isaac B. Singer, nume tutelare di noi anime semplici che, ancora, apriamo un romanzo e ci aspettiamo qualcosa.
Qui non si resta delusi. E la storia raccontata recede (ottima notizia) da tanta letteratura parentale in voga proprio perché, seppur di famiglia si parli, il romanzo è fatto di personaggi con sangue nelle vene e non soggiace allo psicologismo, all’interiorume, alla verbosa introspezione che ha preso il potere in tanta letteratura contemporanea, scacciando lo scrittore per intronare lo psicanalista domenicale. Lombezzi va altrove e trova sempre un modo diverso per guardare in faccia e in pancia Alice, la “ragazza che mangia” protagonista del romanzo, e la sua sofferenza emotiva. “Io non voglio diventare come te. O come nonna. Io non voglio sentirmi abitata dalle mie antenate ogni volta che provo dolore”, dice pensando alla madre. E lo fa con una lingua viva, comica e improvvisamente straziante, colloquiale e poi forbita, capace di trasparenze e evidenze toccanti, che fa divertire e venir voglia di voltar pagina. La migliore notizia che questo romanzo ci consegna è la musica: una voce che asseconda il suono stesso della vita così com’è mentre la si fa, mentre la si sente, mentre la si dice.