Giorgio Napolitano, lo statista che ha sofferto del sentirsi troppo e sempre “il mondo sulle spalle”

Una storia famigliare e politica raccontata dal figlio Giulio. Tra “diplomazia del sangue”, serietà e riserbo. Un’altra generazione di politico, tutto d’un pezzo. Un libro

Giulio posso dire di conoscerlo da quando è nato. Io non era ancora ventenne. E nemmeno laureato. Emilio Sereni mi aveva voluto a Roma come redattore capo di Critica Marxista. Era stato lui a presentarmi, nei corridoi di Botteghe oscure, a Giorgio Napolitano. Mi aveva colpito il modo, che strideva con la figura alta e compassata, distaccata, in impeccabile abito scuro. “Ecco quello che alla stazione di Napoli lavava con la pompa gli scugnizzi che mandavamo presso famiglie in Emilia. Quante ne combinarono quei ragazzini, alcuni misero persino incinte le figlie di chi li ospitava…”. Se non sapete di che si tratta, andate a vedere il bel film “Il treno dei bambini”, di Cristina Comencini, adattato dall’omonimo romanzo di Viola Ardone.

Giorgio Napolitano era uno dei due “giovani” che avrebbero potuto diventare segretari del Pci succedendo a Luigi Longo. L’altro era Enrico Berlinguer. Napolitano invece fu mandato a dirigere la sezione cultura. Mi invitò, ragazzino qual ero, a cena a casa sua, a Monteverde vecchio, in Via Ippolito Pindemonte. Cucinava Clio. A un certo punto dissero che volevano mostrarmi “la meraviglia”. Mi portarono nella stanza dove dormiva in culla un neonato. Era Giulio. Napolitano era commosso, emozionato, felice. Trasudava, sino a quel momento nascosta dall’aplomb, pura, semplice, concentrata umanità.

Clio è sempre stata invece più spiritosa. “Mio marito è diventato capo dello stato e io sono diventata portiera. Ritiro lettere da ore” disse a un giornalista che si era presentato al portone della casa di via dei Serpenti il giorno dell’elezione a presidente di Giorgio. La sera che li invitai a cena da me, ormai “liberati” dal Quirinale, ci aveva raccontato, fumando l’ennesima sigaretta, di come collezionava sacchetti da boutique perché si vergognava, con la scorta onnipresente, di andare a buttare la spazzatura coi sacchi condominiali.

Giulio, che nel giro di poco ha perso entrambi i genitori, ha ora pubblicato per Mondadori Il mondo sulle spalle. Sottotitolo: Una storia famigliare e politica. Un volume di 500 pagine denso di ricordi, anche strettamente personali, di lettere e bigliettini di suo padre e a suo padre, zeppo di nomi e di fatti, con sullo sfondo un’attenta e scrupolosa ricostruzione degli avvenimenti politici degli ultimi decenni. Giulio è ormai un affermato docente universitario e avvocato di diritto internazionale. Fruga nei suoi ricordi da bambino, da studente, da figlio. Fruga nei cassetti e nelle scatole in cui ha raccolto e custodito, sfidando traslochi e trasferte all’estero, foto, spezzoni di diario personale (non so se abbia tenuto un diario vero e o proprio, ma tutti più o meno abbiamo un diario nella memoria), lettere, bigliettini, auguri spediti o ricevuti dal padre, ritagli di giornale, commenti, reazioni colte al volo. E’ un raccoglitore, un collezionista sistematico, a tratti compulsivo.

Sfilano moltissimi personaggi, quelli che frequentavano le case in cui è cresciuto, i propri compagni di scuola e quelli che gli hanno fatto da mentore, gli amici e i compagni del padre, i collaboratori, quelli che ha incontrato a Montecitorio, quelli incontrati nei numerosissimi viaggi all’estero col padre al Senato, al Quirinale, tutte le personalità che hanno fatto la storia politica d’Italia. Non ne viene dimenticato uno. Si capisce, tra le righe, che qualcuno gli è simpatico, altri meno. Ma non parla male di nessuno. Né degli amici né degli avversari. Non da pagelle. A eccezione forse di qualche giornalista. Tra i politici della sua parte, le punture di spillo che si notano di più sono forse quelle a Matteo Renzi, ma anche di lui dice che suo padre con Renzi “era riuscito a costruire un buon rapporto, dopo l’iniziale perplessità e diffidenza, e ne apprezzava il coraggio e l’energia”. “Il processo di assestamento nei loro rapporti non era stato semplice. Ma anche le ‘arrabbiature’ e i ‘rimbrotti’, soprattutto sulle questioni europee, erano stati in qualche modo utili”. La diplomazia nel sangue.

Inutile cercare “rivelazioni”. Napolitano evidentemente non parlava di politica con i figli (a differenza di quel che faceva Berlinguer). Era riservato, sempre misurato, come nelle uscite e nelle dichiarazioni pubbliche. Attento al linguaggio anche nelle virgole. Non avrebbe mai spifferato segreti ai quattro venti. E nemmeno i malumori. Manteneva l’abito da statista anche nel privato. Oppure ha trasmesso l’abito e il riserbo anche al figlio. Serietà e riserbo sempre al primo posto. Mai una sillaba sopra le righe. L’opposto esatto di Trump, per intendersi. Un’altra stoffa, un’altra generazione di politico, tutto d’un pezzo. “Un uomo della Terza internazionale”, la battuta che mi fece un suo intimo e sincero amico, il giorno della sua elezione a presidente della Repubblica.

Giulio è stato, tra i figli, quello che gli è stato sempre più vicino. Lo seguiva anche nei corridoi e nelle anticamere delle cariche istituzionali di cui lui aveva fatto parte per quasi settant’anni. “Mio padre l’ho sempre visto ogni giorno seduto a lavorare alla sua scrivania”, la testimonianza che ne diede il giorno dei funerali, parlando a Montecitorio. Ma fa impressione che si parlassero spesso per iscritto. Il libro è pieno di lettere e messaggi dell’uno all’altro, spesso in busta chiusa, con l’indicazione di aprirla solo in seguito. Ma non si tratta affatto solo di frasi di circostanza. E’ lì che ho trovato le cose più significative. Dall’appunto in cui confessa “Momenti di sottile malinconia, dovuti a un senso di solitudine”, la mancanza di “amici, da anni scomparsi, con i quali ho condiviso un lungo tratto di vita, storie personali e collettive, slanci e tormenti umani”, e soprattutto “mi manca l’antico contesto dell’impegno comune”. Alla lettera, (del 2013, con la presidenza al finire) in cui si rammarica per non aver potuto partecipare alla presentazione del libro di Giulio, nella speranza di poter “presto tornare libero”. Sino a quel “dal punto di vista umano, ho sofferto del sentirmi troppo, sempre, ‘il mondo sulle spalle’”, che da il titolo al libro. Umano, troppo umano, mi viene da dire con Nietzsche.

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