Adesso non importa più del cancro, vogliono riportarlo dentro. Dopo quattro mesi di reclusione, fuori aveva ricominciato a lavorare, a parlare e a scrivere, come se non corresse alcun pericolo
Il politologo più famoso d’Iran rischia di finire in una cella di Evin, il carcere di Teheran che tanti abitanti della città chiamano “l’università” o “lo zoo dei cervelli” per il numero di PhD che vivono rinchiusi tra quelle mura ammuffite. Il professor Sadeq Zibakalam è un settantenne che indossa le camicie con il colletto, molto occidentali e poco persiane, e sa stare sui social: ha due milioni di follower sommando tutte le piattaforme. E’ un musulmano di sinistra che subito dopo la Rivoluzione islamica il regime aveva corteggiato per la sua competenza e per l’autorevolezza che gli iraniani gli riconoscono. Ma a Zibakalam dà troppo gusto usare la propria intelligenza per indagare la società che nei panni del propagandista non avrebbe potuto resistere. E’ mal sopportato da alcuni apparati dagli anni Novanta, quando pubblicò un bestseller che tra le altre cose è un libro contro il vittimismo, perché contiene una riflessione che si può riassumere così: va bene che l’America è imperialista, va bene che il capitalismo opprime, ma non sarà che anche noi possiamo fare di meglio invece di stare sempre a urlare contro qualcuno di molto lontano che nemmeno ci ascolta?
Quando lo invitano alle conferenze negli edifici pubblici, che hanno la bandiera americana disegnata a terra così che tutti la possano calpestare, Zibakalam salta o si arrampica sui termosifoni per evitare di appoggiarci sopra le suole. Ha perso la cattedra e lo stipendio un decennio fa, quando ha detto che lo stato di Israele, accanto a uno stato indipendente palestinese, ha il diritto di esistere. A quel punto le università del Regno Unito hanno provato ad accaparrarsi la mente brillante di Zibakalam che l’Iran aveva scelto di sprecare, ma la Repubblica islamica non lo ha lasciato partire. Zibakalam ha continuato, da pensionato forzato, a scrivere, a pubblicare, a parlare di politica e di quanto farebbe bene lo stato di diritto all’Iran, a raccontare la società che gli sta attorno e come sta cambiando. Non grida “morte al dittatore” in piazza, non chiede la rivoluzione o la guerra civile, ma propone miglioramenti incrementali che la maggior parte della popolazione considera di buon senso e li fa apparire possibili subito – per questo gli ayatollah lo odiano. Zibakalam è contro il velo obbligatorio, nel 2011 si è schierato dalla parte della protesta siriana che voleva liberarsi della dittatura degli Assad e considera grottesco il proposito della Repubblica islamica di distruggere un giorno “l’entità sionista”. Ha avuto problemi con i tribunali rivoluzionari, ma per tanti anni è riuscito a risparmiarsi il carcere. E al suo ultimo libro ha dato un titolo ironico e davvero poco scaramantico: “Come mai non ti arrestano?”. Nel 2024 lo hanno arrestato e lo hanno trascinato a Evin.
E’ uscito quattro mesi dopo, a settembre, soltanto perché gli è venuto un cancro. Fuori ha ricominciato a lavorare, a parlare e a scrivere, come se non corresse alcun pericolo. E’ andato ospite a una conferenza dell’Arab Center in Qatar dove lo hanno presentato come il più importante intellettuale iraniano nell’ambito della scienza politica. “Bismillahi Rahmani Rahim”, “Nel nome di Allah, il più gentile, il più misericordioso”, ha cominciato il suo discorso con la frase di rito, per poi fare un ragionamento che in poche parole voleva dire: se l’Iran è l’unico paese del mondo islamico dove ci sono persone che considerano Benjamin Netanyahu “un eroe”, forse chi ci governa dovrebbe farsi una domanda. Era una considerazione sociologica, non la sua opinione, la timeline di Zibakalam è piena di critiche feroci a Netanyahu e a Donald Trump, di empatia verso i palestinesi e verso gli ucraini a cui il presidente degli Stati Uniti ha voltato le spalle. Ma Zibakalam voleva dire alle autorità del suo paese: avete fatto arrabbiare una generazione di iraniani al punto che tanti che una volta applaudivano Yasser Arafat non ne possono più della causa palestinese perché non ne possono più di voi, non ne possono più di Hezbollah perché lo sostenete voi; al punto pure che qualche giovane affiderebbe volentieri il proprio destino alle bombe di Netanyahu e di Trump sulle vostre teste, perché sono i nemici del loro nemico che si ritrovano. Così adesso non importa più del cancro, vogliono riportarlo dentro.