Shoigu vola a Pechino con un messaggio per l’occidente e l’America: non ci dividerete. E la Cina aumenta le minacce
Ieri Sergei Shoigu, segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione russa ed ex ministro della Difesa, è arrivato a Pechino “a nome del presidente Vladimir Putin”. Nella capitale cinese, Shoigu ha incontrato il leader cinese Xi Jinping per quello che i media cinesi hanno definito un “dialogo strategico”. E’ la seconda volta nel giro di tre mesi che Shoigu va a Pechino, e questa visita arriva neanche una settimana dopo la conversazione telefonica avuta fra Putin e Xi il 24 febbraio scorso, nel giorno dell’anniversario dell’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, mai condannata dalla Cina. Così, mentre a Washington arrivava il presidente ucraino Zelensky, a Pechino l’asse fra Russia e Cina si rafforzava: “La visita dimostra un alto livello di fiducia strategica reciproca tra Cina e Russia, di grande importanza per la stabilità strategica globale, soprattutto in un panorama geopolitico sempre più complesso”, ha scritto il tabloid di propaganda cinese in lingua inglese Global Times.
La mossa di Mosca e Pechino di mantenere contatti e visite diplomatiche di altissimo livello serve a mandare un messaggio all’occidente: se l’obiettivo dell’Amministrazione di Donald Trump è quello di dividerci, di azzardare un secondo split sino-sovietico (che era stato sfruttato dall’allora consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Henry Kissinger, arrivando poi alla visita del 1972 di Richard Nixon in Cina) non ci riuscirete. Trump fa spesso riferimento a quell’epoca in cui la diplomazia creativa apriva opportunità per l’America, ma non ha i mezzi né i collaboratori per portarla avanti. E soprattutto: il mondo è cambiato, e la leadership del Partito comunista cinese ha trascorso decenni a imparare le lezioni del passato. Gli storici e gli analisti sottolineano spesso che l’alleanza strategica fra Mosca e Pechino risente necessariamente di quel passato in cui i due paesi si odiavano – la Russia era pronta a bombardare nuclearmente la Cina – e il rapporto di oggi, rafforzato dalle due figure di Putin e Xi, è di convenienza. Ma il loro è un disegno più grande dell’orizzonte elettorale americano o europeo, riguarda il lungo periodo, il rovesciamento dei rapporti di forza e il segnale costante di chi sta riscrivendo le regole anche, se necessario, con la prepotenza.
Per i paesi europei la Cina continua a essere più lontana, meno conosciuta della Russia, ma i suoi metodi, alle democrazie liberali dell’Indo-Pacifico, ricordano costantemente quelli di Mosca. L’ammiraglio Samuel Paparo, a capo del comando dell’Indo-Pacifico delle Forze armate americane, parlando a un forum per la Difesa alle Hawaii due settimane fa, ha detto che la recente intensificazione delle manovre militari cinesi attorno all’isola di Taiwan, compreso l’invio di diversi palloni spia, navi e aerei militari, “non sono esercitazioni, come le chiamano loro. Sono prove per l’unificazione forzata”. Secondo Paparo, gli show di forza delle esercitazioni potrebbero essere usati per nascondere l’azione militare, proprio come fece tre anni fa la Russia al confine con l’Ucraina. E non c’è solo Taiwan. Per tutta la settimana sui giornali australiani e neozelandesi si è parlato molto di una vicenda che in Europa ha avuto poca eco. Venerdì scorso tre navi della Marina cinese hanno iniziato delle esercitazioni navali a fuoco vivo – cioè con veri ordigni – nel Mare di Tasman, fra l’Australia e la Nuova Zelanda, all’improvviso, avvertendo solo all’ultimo momento le autorità civili consentendo ai piloti degli aerei passeggeri di cambiare rotta. L’evento ha fatto protestare sia il governo di Canberra sia quello di Wellington, perché sebbene la Cina abbia diritto a operare in quell’area con esercitazioni militari, le convenzioni internazionali richiedono un preavviso di 12 o perfino 48 ore anche alle autorità di Difesa dei paesi limitrofi – cosa che Pechino ha sempre fatto, ma a quanto pare vuole smettere di fare.
L’ambasciatore cinese in Australia, Xiao Qian, ha detto: “Non vedo alcun motivo per cui la parte cinese dovrebbe sentirsi dispiaciuta per questo o anche… scusarsi per questo”. “Paesi diversi hanno prassi diverse e in base alla natura dell’esercitazione, alle dimensioni e alla portata dell’esercitazione, e quindi ritengo l’avviso cinese sia stato appropriato”, ha detto il diplomatico. L’accademico neozelandese Al Gillespie ha scritto su The Conversation che “ciò che sta accadendo nel Mare di Tasman non è simile alle azioni più aggressive che le Forze armate cinesi hanno mostrato nel Mar cinese meridionale”, dove le Filippine continuano a resistere ai tentativi di coercizione e bullismo cinesi, ma c’entra la pressione che Pechino sta mettendo sull’area dell’Oceania per dividere e conquistare, e crearsi una leva politica internazionale. Xi Jinping vuole riaffermare la sua centralità nel Pacifico, e l’ha fatto per esempio con un accordo firmato a sorpresa in settimana con il governo delle Isole Cook, che ha irritato non poco la Nuova Zelanda – Gillespie scrive che questa irritazione potrebbe spingere “il governo di Wellington ad aderire ad Aukus”, il patto di sicurezza fra America, Regno Unito e Australia, ma per dare una misura indicativa dell’interesse strategico del patto alla Casa Bianca di oggi, basti pensare che quando qualche giorno fa hanno chiesto a Trump se avesse intenzione di rafforzare Aukus, lui ha risposto: “Che vuol dire Aukus?”. La Cina e la Russia sembrano avere la strada spianata.