Il Novecento di Franco Debenedetti

La guerra, la fuga in Svizzera, i giorni alla Fiat. E poi l’Avvocato, Sottsass e altre questioni novecentesche. Colloquio con Franco Debenedetti

Se i De Benedetti fossero una qualche forma di famiglia reale, Franco Debenedetti, scritto attaccato, fratello meno noto dell’Ingegnere, scritto staccato, sarebbe un po’ la principessa Margaret; mentre il fratello Carlo ha costruito o ingrandito l’impero creato dal padre Rodolfo, Franco si è divertito; certo non pensiamo ai divertimenti odierni, anche se è vestito Prada dalla testa ai piedi, non è Tony Effe, non è un trapper, non èandato in giro a farsi tatuaggi al Twiga: ha studiato, piuttosto, cercato di conciliare impresa e cultura, ha fatto il capo del personale in grandi aziende, è stato senatore ulivista per tre giri, insomma specie purissima di di manager olivettiano col plus del fratello proprietario dell’Olivetti.

Anche, intellettuale-sciatore in dirndl, presentatore di libri propri e altrui, insomma tutte cose che si facevano nel Novecento, quell’epoca perduta e compianta. Ancora. collezionista di case favolose e ingegneristiche; come quella in cui si svolge questa intervista a Milano, anzi due, prima in una specie di hangar tecnologico a Crescenzago, dove insieme alla moglie Barbara Ghella, dinastia di costruttori, ingegnosa costruttrice di realtà come l’Interaction Design Institute di Ivrea, poi trasferito qui; ma ci più avanti ci sposteremo in pieno centro in una mansarda più borghese. Nell’hangar c’è una cosa sommamente novecentesca, una enorme libreria.

Ma intanto, scusi se mi permetto, Debenedetti, ma da dove vengono i denari? “Nostro padre Rodolfo, tornato dalla Grande guerra, guarito dalla epidemia di Spagnola, si era laureato con una tesi sui tubi. E nel ‘21 aveva fondato la Compagnia italiana tubi metallici flessibili. Pensò che in un paese in crescita di consumi, con un po’ più di benessere la gente avrebbe fatto più docce, e le docce a telefono avevano bisogno di tubi flessibili, che scarseggiavano. Poi si scoprì che nei tubi flessibili si poteva travasare la benzina dalle taniche ai serbatoi degli aerei e delle macchine. Così brevettò il tubo ‘Avioflex’. E sebbene gli ebrei per le leggi razziali non potessero avere imprese con dipendenti ariani, i tubi Avioflex erano indispensabili per l’aviazione del Fascismo e per questo noi godevamo di eccezioni a quelle leggi. Mio padre andò da un tedesco, Otto Meyer, a proporgli un accordo commerciale, come abbia fatto non so: di tedesco sapeva solo quanto era necessario per seguire le opere di Wagner, di cui era fanatico ammiratore”. Poi Meyer tornerà, ma intanto ecco la Germania, che nel racconto di Debenedetti pare la terra dell’abbondanza e della libertà d’allora, tra le due guerre, ed ecco soprattutto la seconda lingua.

Perché se la fabbricazione dei tubi debenedettiani è affascinante come quella della carta raccontata da Balzac nelle Illusioni perdute o dei guanti in Pastorale americana di Philip Roth la pastorale debenedettiana sembra più un romanzo dell’altro Roth, Joseph, quello della finis Austriae, fine dell’impero e cantore di un altro tempo, ed è contenuta invece nell’ultimo libro proprio di Debenedetti, “Due lingue, due vite – i miei anni svizzeri 1943-1945” pubblicato da Marsilio Arte. Più che un libro è uno “scratch book” o scartafaccio, con biglietti del treno, diari, foto di vecchi giornali, il diario di un ragazzino che nella Svizzera tedesca impara la vita. Paradossalmente scrivendo in tedesco, eccola qui la seconda lingua, lingua degli oppressori, dei nazisti ma anche lingua della libertà. Lingua imparata alla velocità della luce a forza di dieci parole al giorno, per ricominciare da capo.



Fast forward. Dai tubi alla Fiat, finita la guerra, “mio fratello quando divenne per i famosi 100 giorni amministratore delegato scambiò l’azienda nostra di famiglia con un pacchetto azionario della Fiat”. Un bel pacchetto. Ma prima, voi da piccoli vivevate in casa Agnelli, in corso Matteotti. “Sì, ma non eravamo gli unici inquilini, c’era anche il senatore socialista Achille Loria”. Ma scusi, perché la famiglia più ricca d’Italia si teneva degli inquilini a palazzo, seppur re dei tubi? “E’ una bella domanda effettivamente. Forse per tirar su un po’ di affitti che non fanno mai male”. Che ricordi ha di palazzo Agnelli? “Quando morì Virginia, la mamma dell’Avvocato, in un incidente stradale, ricordo il gran trambusto. E poi invece ben altre emozioni quando intravidi giovanissima Ira Fürstenberg, figlia di Clara Agnelli, che usciva dal bagno”. Le piaceva? “Eh, sì, molto”. Suo fratello Carlo racconta di una strana storia un po’ pecoreccia, l’Avvocato che sul portone di quel palazzo passa con Anita Ekberg e dice a suo fratello Carlo, imbambolato per quell’apparizione: vai a farti una sega. E’ un invenzione, dai. “No, no, è verissimo, me lo ricordo anch’io. L’Avvocato disse: hai guardato? Bene, adesso vai a farti una bella sega”. Simpatico.

E senta, e Umberto Agnelli, invece, il fratello più piccolo? “Eravamo in classe insieme. A volte mi portava a scuola, al San Giuseppe, con la sua moto Bmw. Moto su cui ci furono ampie discussioni nel palazzo. I suoi genitori erano incerti se comprare la Bmw o una Triumph. Chiesero molti consigli a mio padre che appunto era ingegnere meccanico. Il quale dopo un po’ si spazientì e disse a Umberto: senti, adesso mi hai stufato, compratele tutte e due. E così fu”. Però il povero Umberto era in gamba. Fu lui a salvare la Fiat in un certo senso. Prima tenendo i conti in ordine, e poi trovando nelle province dell’impero uno sconosciuto manager, Sergio Marchionne. “E’ vero, la Fiat gli deve molto. Effettivamente non era uno stupido ma sicuramente non era difficile il confronto con un fratello che era bello, brillante, sempre con la battuta pronta”.

Suo fratello Carlo, quello scritto staccato, a parte la Ekberg ha un po’ il dente avvelenato con gli Agnelli. Che non attraversano un gran momento. Secondo lei han più preso o più dato alla povera Italia, negli anni? “Più dato, sicuramente, com’è giusto che fosse”. Senta Debenedetti, sempre suo fratello qualche giorno fa ha annunciato di aver rifinanziato il giornale da lui fondato, Domani, con altri 10 milioni. “Ha fatto bene. Se se lo può permettere, beato lui”. “Poi è un bel giornale, è in tutte le mazzette”. Lei ha mai pensato di fondarne uno? Ride. “Non sono mica matto”. Però nel suo libro racconta della passione dei giornali. A un certo punto da bambino un suo tema, in tedesco, finì pure su un quotidiano svizzero, Freier Schweizer. “Certo, eccolo qua”, e tira fuori da un vecchio faldone il tema pubblicato sulla carta ormai ingiallita. Un tema in tedesco scritto da un ragazzino italiano che solo qualche mese prima è riparato a Lucerna.

Qui i tubi tornano a essere centrali, i tubi salvano infatti la vita: Otto Meyer, l’industriale con cui il padre aveva fatto accordi, “era anche colonnello dell’esercito svizzero, e nel ‘43 fu lui che ci permise di scappare a Lucerna. Aspettammo la sua telefonata per cinque giorni, ci venne indicato un punto preciso in cui la rete del confine era stata bucata, passammo. I miei cugini che non ce la fecero finirono al binario 21 della stazione centrale di Milano, e. di lì nei campi di concentramento. Altri rimasero indietro, come la famiglia di Liliana Segre, o due cugini che dovevano passare il confine dopo di noi. Furono catturati: lei morì a Buchenwald, scuoiata viva; lui impazzì, nostro padre lo mantenne per tutta la vita”. Oggi le fa paura la situazione internazionale? “Mi fa paura soprattutto la Germania con i neonazisti dell’Afd. E’ una cosa inconcepibile che possano arrivare al governo. Fino a cinque anni fa era un’ipotesi semplicemente impossibile”. Per adesso la Germania tiene, ma certo è finito un mondo. Suo fratello era bravo come lei alla scuola svizzera? “No, ma due anni di differenza a quell’età fanno molto”.

Com’era Carlo da ragazzino? “Più spericolato di me. A un certo punto sputò dal balcone in testa a un soldato. Lo punirono a dovere”. Ha fatto bene a regalare Repubblica ai suoi figli, che poi l’hanno venduta agli Elkann? “Mettiamola così, io non sono sempre stato d’accordo con le scelte industriali di mio fratello”. Neanche quando a fine anni Settanta rifiutò le avance di Steve Jobs che gli offriva di entrare con una grossa quota alla Apple? Elserino Piol, il manager che si occupava dell’elettronica dell’Olivetti, propose di visitare un garage dove due capelloni con i jeans sdruciti stavano lavorando a un minicomputer: erano Jobs e Wozniak. Jobs propose di prendere il 20 per cento della loro azienda, per 20 milioni di dollari. La risposta di Cdb fu: cosa vogliono da noi questi due capelloni? “Lì non fui interpellato, però che sogno, quello sarebbe stata una sliding door incredibile”. Forse però era un po’ imprevedibile che la Apple sarebbe diventata la Apple di oggi. “Non del tutto imprevedibile”. Che poi alla fine lei è presidente dell’istituto Bruno Leoni, ricettacolo di fervidi liberisti, mentre suo fratello, diciamo per semplificare, è il comunista della famiglia, è lui che ha fatto i soldi. “E’ vero, non ci avevo mai pensato in questi termini”.

In Silicon Valley attorno al centro Olivetti, allignava pure Ettore Sottsass, designer della real casa Debenedetti. Era stato ricoverato allo Stanford Medical Center di Palo Alto su consiglio di Roberto Olivetti, figlio di Adriano, per curarsi una grave nefrite presa in India. E in Silicon Valley qualche anno fa insieme a Franco e alla moglie Barbara avevamo fatto una gita a vedere anche una casa californiana, anzi l’unica, creata da Sottsass, per David Kelley, quello che ha inventato il mouse Apple tra le altre cose. “Sottsass me l’ero ritrovato alla Olivetti dove disegnava i mobili per ufficio della linea Synthesis” dice Franco Debenedetti. Sono gli anni leggendari della diarchia, Sottsass e Bellini. “Poi vidi la meravigliosa casa che fece per Roberto Olivetti”.

Da lì case e ciò che contengono possibilmente devono essere fatte da “Ettorino”, pure quella di Roma al Ghetto, pure gli strani e bellissimi vasi come quello a forma di cactus vicino al caminetto dove siamo ore, “ma non mi piace parlare di collezionismo”, dice, come tutti i veri collezionisti. Poi mi fa: “anche Eugenio Scalfari era un collezionista”. Ah, sì? “Quando prese un po’ di soldi dalla vendita di Repubblica…”. Qualche soldo mica tanto, erano quasi cento miliardi di lire. “Sì, insomma, quando prese quei soldi si comprò un Guardi. Un vedutista veneto” fa Debenedetti attaccato con un sorriso. Non va bene? “Mah, insomma. Ci siamo capiti”. Il Debenedetti attaccato colleziona anche abiti. Ma compra tutta la collezione Prada o volta per volta? Ha un vuoto di memoria. “Chiedetelo a Prada, loro lo sanno di sicuro”. Ha guardato Sanremo? Trasalisce. “Ma no, che schifo, per carità”. Quest’anno o in generale? “No, no, aspetti, me ne ricordo uno”. Quale? “Quello con Grazie dei fiori”. Certo. Giusto l’altro ieri. Anche questa era un’altra epoca, forse migliore.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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