La staffetta tra Macron e Starmer a Washington per salvare i rapporti transatlantici e l’ambasciatore che parla la lingua del business e della politica e ha sempre tifato per l’Europa. Un incantatore che sa quali sono le priorità e ha da sempre una certa dimestichezza con l’approccio transazionale
Domani Keir Starmer vola a Washington, tre giorni dopo la visita di Emmanuel Macron, e l’intero establishment britannico è alle prese con il rompicapo di trovare gli argomenti giusti per evitare che il ghiaccio sottilissimo su cui tutti si muovono con Donald Trump si spacchi. Senza eccedere in lusinghe e allineamenti impossibili, però, perché sull’Ucraina il Regno è unitissimo e Starmer ha già detto la sua: Zelensky non è un dittatore, gli Stati Uniti devono avere un ruolo in un cessate il fuoco per garantire una pace durevole, Londra può mandare delle forze di pace (anche se non se le può esattamente permettere, al momento, promette di trovare una soluzione). E tutto il mondo politico gli sta più o meno dietro, addirittura Nigel Farage, che a furia di frequentare Mar-a-Lago ha forse capito prima e meglio degli altri quanto siano volatili le simpatie da quelle parti e che sa di doversela vedersela con un elettorato che, nonostante tutto, ha le idee molto chiare su chi abbia attaccato chi tra Mosca e Kyiv.
Starmer ha dei punti di forza, in particolare una maggioranza parlamentare in grado di farne un interlocutore stabile per il futuro, a differenza del presidente francese Macron che in America ci è appena stato, con esito incerto. Sono aspetti, questi, per i quali Trump nutre un certo rispetto, così come rispetta gli argomenti più ancestrali e legati al prestigio: sua madre era scozzese e lui ha una venerazione per la Royal Family. Di Starmer ha detto che pur essendo “un liberale, e quindi un bel po’ diverso da me, penso sia una brava persona e abbia fatto un buon lavoro finora”. Non basta, ma sono carte da giocare, da unire allo sforzo diplomatico che Londra sta facendo già da un po’ per salvaguardare la “special relationship” e, visto che nel frattempo è collassata la relazione transatlantica, anche per l’Europa, e che passa attraverso la mente strategica di Peter Mandelson. Averlo spedito a Washington per unirsi a un dei più grandi consessi di ego espansi della storia recente ha qualcosa di ovvio, naturale – la caratura per entrare nell’arena e farsi valere ce l’ha, su questo nessuno ha dubbi – ma anche una decisa componente di azzardo: con rare eccezioni, vecchie ormai di cinquant’anni, Londra affida la “special relationship” solo a diplomatici di carriera, che lavorano nell’ombra per mantenere saldo il legame a prescindere da chi sia alla Casa Bianca e chi a Downing Street, mentre Mandelson l’ombra, di cui in teoria sarebbe il principe secondo uno dei tanti soprannomi politici di cui si sospetta vada molto fiero, la tradisce in continuazione. A lui piacciono i riflettori, la gloria, le telecamere e, stando alla sua lunghissima biografia politica e alle tante testimonianze di chi ci ha avuto a che fare, anche i soldi, che lo hanno portato a vivere una serie di scandali da cui è sempre uscito in piedi e con la sorprendente inclinazione ad andarsene a cercare di nuovi, come se la cosa non gli dispiacesse poi fino in fondo. “Sembrava che si divertisse a farsi beccare con le mani in pasta”, racconta chi ci ha lavorato a Bruxelles e ne ricorda la capacità di ottenere tutto quello che voleva, che fosse un omaggio sotto forma di pregiatissimo tè verde dal costo astronomico durante una visita in Giappone alla sacrosanta attenzione sulla Cina quando nessuno ancora la considerava un dossier importante.
Starmer vuole salvare la “special relationship” messa in crisi da Musk, ma ora si gioca un ruolo più largo, europeo
Ma la Washington attuale è un luogo pieno di gente che non considera le mani in pasta un problema, e con la loro scelta di alto profilo, il premier Starmer e il suo potente capo di gabinetto Morgan McSweeney, una specie di versione giovane di Mandelson stesso, hanno voluto senz’altro mostrare in modo plateale tutta la loro considerazione nei confronti della nuova Amministrazione.
Politico di lungo corso, nel 2010 The Sinister Minister – ecco un altro dei soprannomi, ma ne seguiranno altri – è passato alla lobby vera e propria, con la sua consultancy Global Counsel, con clienti in tutto il mondo gestiti in prima persona e in particolare – cosa che ha fatto drizzare le antenne all’Fbi, a cui è stato recapitato un dossier politico – in Cina: Alibaba, TikTok e Shein, la società di fast fashion accusata di svariate nefandezze, tra cui lo sfruttamento della manodopera uigura. Da Global Counsel ha fatto un passo indietro, più o meno, rinunciando alla carica di direttore ma tenendo quella di presidente dell’International advisory board, con una quota che a giugno scorso risultava ancora del 28 per cento. Ma nella visione di Mandy, la politica, la lobby e il business non sono mai troppo distanti gli uni dagli altri, e infatti mentre fatturava milioni si è dedicato “ogni giorno ad accelerare la fine della permanenza in carica” di Jeremy Corbyn, il contrario di tutto quello che lui ha sempre voluto per il suo partito. “Il mio progetto sarà completo quando il New Labour imparerà ad amare Peter Mandelson”, disse di lui Tony Blair, con una frase che richiama un po’ il “come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba” del Dottor Stranamore. Amare forse no, ma il Labour, old, new e poi vintage e ora di nuovo abbastanza new, ha senz’altro imparato a temerlo, e durante la sua esperienza da direttore delle comunicazioni del partito all’epoca di massima gloria la sua aura machiavellica si è andata consolidando a suon di episodi leggendari.
“Terzo uomo” tra Blair e Brown, come recita anche il titolo della sua autobiografia, è stato così influente che quando nel 1998 il commentatore Tory Matthew Parris dichiarò davanti al giornalista Jeremy Paxman che Mandelson era “certamente gay”, la Bbc proibì a tutti i suoi programmi di riprendere la notizia – il divieto durò 10 anni – e Paxman stesso, uno con la fama da inflessibile, andò personalmente a scusarsi a casa del diretto interessato. Il Regno Unito dell’epoca era molto preso a spettegolare sulla vicenda, a parlare della “mafia rosa” di Mandelson, soprannominata il suo “Homintern”. All’epoca già viveva con Reinaldo Avila da Silva, sposato nell’ottobre del 2023 con una bella cerimonia sotto la pioggia. Asticella alta e orgoglio da hidalgo, ma solo quando serve. “Peter è un talento politico fenomenale, è intelligente” ed è un “operatore politico astuto”, secondo Alastair Campbell, che nel podcast The Rest is Politics ha risposto così all’inevitabile indignazione di tanti ascoltatori davanti alla maniera clamorosa in cui Mandelson ha ritrattato addirittura su Fox le sue passate dichiarazioni su Trump (“bullo”, “pericolo per il mondo”, “razzista” e compagnia cantante, il minimo per un progressista nel 2019 a colloquio con un altro elegantissimo come Alain Elkann per La Stampa).
Ma se l’ascoltatore si indigna tocca farsene una ragione, mentre se uno come Chris LaCivita, superconsulente di Trump, lo definisce “un imbecille assoluto” che dovrebbe starsene a casa, andare in tv a dire che i giudizi sul presidente erano “sconsiderati e sbagliati” appare necessario. Su tutto questo Mandelson finora si è posto con toni flautati, inviti alla calma, anche perché da quando il suo nome ha iniziato a circolare per la sede di Washington ci sono stati molti ostacoli da superare e una certa oscillazione appare ormai parte della strategia negoziale della nuova Casa Bianca, dove tutti speravano che Londra continuasse a essere rappresentata dalla fenomenale Karen Pierce, che ha curato con attenzione i rapporti con i trumpiani anche durante gli anni folli e che sarebbe rimasta volentieri. Prima donna a ricoprire il ruolo di ambasciatrice in America, minuscola e vestita di colori fluorescenti, rara figura working class in un mondo di privilegio, ha dato un bellissimo consiglio al suo successore, “Make the weather”, decidi tu che tempo farà, non restare in balia degli eventi. Anche per evitare di fare la fine di quello prima, Kim Darroch, che nel 2019 aveva definito Trump “inetto e insicuro” in alcune lettere private, fatte emergere da una manina nemica, ed era stato bollato come “un deficiente” e “un idiota pieno di sé” dal presidente ai tempi al suo primo mandato. Darroch era stato costretto a dimettersi, anche perché l’allora premier Boris Johnson non l’aveva difeso, e in questi giorni sta riempendo giornali e radio di consigli saggi su come Starmer dovrebbe muoversi: mettere sul piatto un impegno serio di Londra su truppe e spese in difesa, ma anche far capire che se vuole entrare nei libri di storia Trump non può mettere la faccia su una pace evanescente e friabile, facendo la figura di quello che si fa manipolare da Putin. Trump è un “uomo da transazioni”, con lui bisogna parlare chiaro e dire cosa si vuole e qual è il beneficio materiale per la sua agenda, “senza invocare la special relationship”. Bisogna parlare alla sua cerchia di miliardari, quelli che interpella quando deve prendere le decisioni importanti, rassicurandoli come quando, ai tempi del New Labour, Mandelson spiegò (l’ha raccontato di recente al Financial Times) agli americani preoccupati dal ritorno del comunismo: “Siamo profondamente rilassati davanti all’idea che la gente diventi ricca da far schifo dal momento in cui paga le tasse”.
Gli strumenti per incantare Washington ci sono tutti, compresa la splendida residenza, edificio palladiano disegnato da Edwin Lutyens nel 1928, tutto stucchi, scalinate e saloni, uno dei palazzi più belli della città e, grazie alla mistica che circonda tutto ciò che è britannico, in grado di far sognare questa classe dirigente americana di nostalgici della vecchia Inghilterra, tutti innamorati dei reali e con il santino di Maggie Thatcher mai troppo lontano. Qui è necessario che vengano fuori le doti legate al terzo soprannome di Mandelson, Svengali, il personaggio capace di controllare le menti degli altri, l’incantatore (per scopi spesso maligni, ma l’importante è riuscirci). L’obiettivo è sostenere la crescita, non perdere la gara con la Cina, restare rilevanti all’interno di un occidente deciso a restare dominante, rafforzare il rapporto tra Starmer e Trump. Adattando il soft power a qualcosa di meno strutturato delle regole e delle vecchie alleanze e facendo quello che riesce meglio a Mandelson: muoversi nelle stanze del potere, felpato e suadente, come ha iniziato a fare fin da piccolo, secondo la mamma Mary, figlia di Herbert Morrison, politico laburista di primo piano ed ex ministro degli Esteri di Clement Attlee, sposata con un simpatico pubblicitario di origine ebrea polacca, Tony Mandelson. Peter è nato quindi con un “cucchiaio rosso” a Hampstead, in una famiglia dell’aristocrazia politica, con le origini proletarie del geniale nonno, che pare fosse il politico laburista più odiato della sua generazione, ormai distanti. Da giovanissimo aderisce alla Lega giovanile comunista, perché era contrario al Vietnam. Poi arriva Oxford, nel 1978 va addirittura a Cuba al Festival mondiale della gioventù e questo suo viaggio all’Avana gli conferisce una certa aura da spia, o da dissidente. Inizia a lavorare come producer in tv, poi si fa avanti per diventare direttore delle comunicazioni nel 1985 – è stato il primo ad essere chiamato spin doctor nel Regno Unito – e quando nel 1992 Kinnock perde a sorpresa dopo una campagna ottimista e in stile americano (troppo, se si crede alla leggenda che dice che fu il Sun, con l’impareggiabile titolo “Se vince Kinnock, l’ultimo che esce dal paese può spegnere la luce per favore?” a decretarne la sconfitta) Mandelson entra a Westminster, dove rimane per dodici anni e da dove guida l’invincibile armata blairiana, plasma il New Labour, decide che Tony ha più carisma di Gordon e quindi deve andare per primo, anche se poi, dopo anni di freddezza, va a lavorare con quest’ultimo. Si è sempre sentito “il prosciutto” nel sandwich Blair-Brown, la sua ambizione di arrivarci lui, a Downing Street, era evidente a molti, ma poi sono arrivati i soldi e gli scandali per i soldi: un prestito da 373 mila sterline da un deputato milionario per comprarsi casa in una parte fancy di Notting Hill, con successive dimissioni nel 1998, e le intercessioni per far avere il passaporto britannico a un milionario indiano, con successive dimissioni nel 2001.
Rimasto deputato fino al 2004, poi si è avverato il suo sogno di sincero europeista di andare a Bruxelles, con la responsabilità per il Commercio fino al 2008. Di lui in città è rimasto un ricordo evanescente come una scia di acqua di colonia, una visita inopportuna sul panfilo dell’oligarca Deripaska, e un altro soprannome, “l’uomo che sussurrava al denaro”, con gli occhi sempre rivolti a Londra, dove poi è tornato in grande spolvero con Gordon Brown, finendo di fatto vice di quello che a un certo punto sembrava il suo nemico giurato. Intanto piovevano critiche perché dall’Ue gli stavano arrivando altri soldi, tantissimi agli occhi di un’opinione pubblica che da lì a qualche anno avrebbe fatto sapere cosa pensava delle vacche grasse comunitarie. Sulla Brexit si è speso, ma forse lì è venuto fuori il principale difetto di Peter Mandelson, Svengali, Prince of Darkness, Sinister Minister: non è un oratore eccezionale, al contrario, risulta ampolloso e poco diretto, e lo stesso avviene quando scrive. Ma non fa niente, ora è il momento di capire se finalmente tutto questo machiavellismo sarà utile a lui, a Starmer, al Regno Unito, all’Europa.