Nel 1975 usciva il primo film della saga di Villaggio. Ma oggi l’Italia è sempre più fantozziana
Di Ugo Fantozzi ne nasce uno ogni secolo. Era il 27 marzo 1975 quando il film esordì in una nazione (ma allora si diceva “paese”) massimamente fantozziana, che ancora però non sapeva d’esserlo. Il film fu subito un successo: sei miliardi di incasso al botteghino, recensioni mediamente entusiastiche ancorché con qualche sopracciglio alzato da sinistra (Tullio Kezich, sul Corriere, scrisse che Fantozzi era “una commedia all’italiana portata all’estremo, feroce e senza pietà, capace di cogliere le nevrosi dell’impiegato con uno sguardo che ricorda Chaplin e Gogol’”. Giovanni Grazzini sempre sul Corriere parlò di “un film comico irresistibile, che nasconde dietro la risata una delle più lucide critiche alla società italiana contemporanea”. Callisto Cosulich, sull’Unità, fu più critico, definendolo “una farsa che sconfina spesso nel grottesco e nella volgarità, con una comicità che non sempre evita il facile effetto”. Alberto Moravia definì Fantozzi un personaggio “disperatamente vero”, un simbolo della piccola borghesia italiana schiacciata dal potere.
Il film diede il via a un “franchise” che ne fa praticamente lo Star Wars italiano (dieci film, fino a fine anni Novanta, con qualità ovviamente a decrescere). La saga nasceva come si sa dall’esperienza personale di Paolo Villaggio, che negli anni 60 lavorava come impiegato alla Cosider, un’azienda genovese del settore siderurgico. Osservando la vita d’ufficio e i suoi colleghi, Villaggio sviluppò l’idea dell’italiano medio frustrato, servile e goffo, schiacciato dalla gerarchia aziendale e dalle ingiustizie quotidiane. Ma “Fantozzi” fu anche un caso peculiare di business model: dalla “stand up comedy” si direbbe oggi, ai giornali, ai libri, al cinema. Villaggio iniziò infatti a raccontare storie tragicomiche ispirate ai suoi anni da impiegato durante le serate nei cabaret genovesi. Il pubblico reagiva con entusiasmo al racconto di questo povero cristo umiliato dalla vita, e così il personaggio prese forma. Nel 1968, la rivista L’Europeo pubblicò alcuni racconti di Villaggio, e poco dopo l’editore Rizzoli gli propose di raccoglierli in un libro. Nel 1971 uscì il primo libro della saga, che fu un successo clamoroso, con oltre un milione di copie vendute. Il linguaggio inventato da Villaggio, fatto di iperboli, formule burocratiche e termini grotteschi, contribuì a rendere il personaggio unico e immediatamente riconoscibile. Il passaggio al cinema avvenne cinquant’anni fa nel 1975, con il film, diretto da Luciano Salce. Villaggio, che inizialmente voleva affidare la parte a un altro attore, fu convinto a interpretarlo lui stesso.
L’autore passo dopo passo “diventa” Fantozzi. Scrive infatti Stefano Bartezzaghi nella prefazione all’edizione tascabile Bur del primo volume della saga: “Fantozzi nasce come collega di Giandomenico Fracchia” (altro personaggio inventato dall’attore) “e da Fracchia menzionato durante i suoi monologhi”. Solo più avanti Fracchia si fa da parte e Fantozzi viene fuori come protagonista, “da un certo punto in poi Fantozzi ha tenuto in prima persona un ‘diario’ che poi sarebbe stato raccolto nel primo libro (che infatti copre un anno nella vita del ragioniere, seguendo il ciclo delle stagioni come gli articoli che lo compongono)”.
Il libro, letto oggi, fa uno strano effetto: intanto si capisce l’enorme lavoro degli sceneggiatori, che insieme a Villaggio e Salce erano Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, la coppia autrice di “Amici miei”, di “Matrimonio all’italiana”, dell’episodio del Dentone dei “Complessi”, e del “Marchese del Grillo”, con Sordi, insomma i dioscuri della grande commedia all’italiana. Poi, il libro è composto di 42 raccontini che durano una o due pagine ciascuno, ordinati per stagioni, dalla primavera all’autunno, molto diversi dai film che abbiamo visto, ma si riconosce comunque la “voce” che poi diventerà il “voice over” dello stesso Villaggio a commentare le avventure del personaggio, che poi sarebbe lui stesso, e questo è abbastanza raro nella filmografia mondiale.
Questa voce fuori campo dall’accento genovese diffondeva termini che poi sarebbero diventati proverbiali: da “com’è umano lei” al “megadirettore galattico” alla “boiata pazzesca” sono ormai parte del linguaggio quotidiano italiano, spesso usati per descrivere situazioni assurde, ingiuste o grottesche. Il “cineforum” evoca sempre visioni coatte per colpa di fanatici cinefili, e quando si inciampa nel montaggio, questo è sempre “analogico”. Ma anche “Calboni”, “la figlia di Fantozzi”, la contessa Serbelloni Mazzanti, il maestro Canello, il Duca conte sono personaggi della commedia umana fantozziana che ritroviamo nella vita di tutti i giorni. Certo, il cinema dell’epoca poteva contare anche su caratteristi strepitosi, pescati chissà dove, che davano spessore a questi personaggi. Il Duca conte Semenzara, per esempio, quello maniaco del gioco d’azzardo che si porta un impiegato ogni anno a Montecarlo, regolarmente sorteggiato, era interpretato da Antonino Faà di Bruno, un nobile piemontese che era stato militare di carriera fino a raggiungere il grado di generale, e una volta in pensione si mise a fare delle particine nel cinema: e che cinema. In “Amarcord” (1973) di Fellini fa il conte Lovignano. Nel 1975 ha lavorato con Luigi Comencini in “La donna della domenica”. Ma è soprattutto nel “Secondo tragico Fantozzi” appunto col Duca conte Semenzara che diventa (perdonateci la parola mostruosa) iconico.
Villaggio citò tra le sue ispirazioni autori come Gogol’ e Kafka, che con le loro storie di uomini oppressi dalla burocrazia e dal potere avevano già delineato personaggi simili a Fantozzi. Inoltre, lo stile comico e surreale di Chaplin e Buster Keaton influenzò le gag fisiche e l’espressività del personaggio. Il corpo di Fantozzi del resto è quello di un cartone animato che subisce (ancora), viene affettato come una cernia sul banco del pescato, sparato dal cannone del circo, massacrato nelle parti intime dalla stecca del biliardo, le falangi delle mani vengono regolarmente schiacciate in “una leggerissima frattura” da sportelli d’auto che si chiudono senza preavviso. La salivazione è “azzerata”, il colorito è “Rosso-rosso pompeiano-blu tenebra”. Ma naturalmente Fantozzi non si fa mai male veramente. E’ un corpo rabelaisiano, direbbero le persone mostruosamente colte, “il corpo di Fantozzi è una fucina ininterrotta di sintomi”, spiega sempre Bartezzaghi autore anche di un fondamentale dizionario fantozziano in coda al volume.
Straordinari sono poi i nomi di protagonisti e comprimari: Fantozzi, Filini, Calboni, Silvani, il professor Otto Kraus-Kollman, Pia Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, Pier Ugo Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, Direttore Conte Corrado Maria Lobbiam, Giandomenico Fracchia, rag. Fonelli, il professor Mannaroni-Turri, i gemelli Bragadin, il professor Vignardelli Bava, il Megadirettore professor Guidobaldo Maria Riccardelli, il Marchese Conte Piermatteo Barambani, il Visconte Cobram…). Personaggi che ricorrono nei vari episodi e che gli appassionati conoscono come quelli della Commedia balzachiana. E poi l’esagerazione; gli applausi sono di “novantadue minuti”, tutto è “galattico” e “megagalattico” (in questo Giorgia Meloni si inserisce perfettamente nel solco fantozziano col suo “orbe terraqueo”).
E a proposito del termine “fantozziano”, Bartezzaghi precisa che un termine del genere, che cioè deriva da un nome, si chiama “deonomastico”, ma qui abbiamo una specie di deonomastico rinforzato. “Non esistono solo film felliniani: esiste anche qualcosa come ‘il felliniano’; non esistono solo libri kafkiani: esiste anche qualcosa come ‘il kafkiano’”. Il fantozziano è insomma una dimensione dello spirito, come il pasoliniano. E “fantozziano” e “pasoliniano” sono forse i deonomastici più usati in Italia. Un comportamento goffo è sempre fantozziano e una periferia industriale brulla è sempre pasoliniana. La coincidenza vuole che Pasolini sia morto nel ’75, stesso anno del primo Fantozzi. Da una parte abbiamo dunque il cantore della nostalgia di un’Italia agricola, dall’altra il protagonista della microborghesia urbana. Da una parte l’impegno, gli anni Settanta, dall’altra il disimpegno e la voglia di benessere degli ‘80 che incombono. Anche, con sovrapposizioni: il Ragioniere stava vicino al Pigneto, ma ecco i “giorni stupendi, in cui l’estate ardeva ancora purissima, appena svuotata un po’ dentro, dalla sua furia. Via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto”, dei “Ragazzi di vita”. La Megaditta di Fantozzi è invece all’Eur come la casa della mamma del Poeta, e forse tutta la questione del petrolio e delle sette sorelle è riassunta con eguale efficacia nella scena in cui Fantozzi e Filini vengono scudisciati per aver rovesciato una barca d’acqua addosso al Ministro del Petrolio di uno stato africano, oltre che nel complicato “Petrolio” dell’incompiuta pasoliniana.
Ancora, da una parte il grande accusatore, dall’altra il grande incassatore. L’icona sexy che fa innamorare uomini e donne, e il ragioniere rassegnato al porno notturno. Non so se esistono studi comparativistici, però credo che “io sono stato azzurro di sci” rappresenti il carattere nazionale forse più e meglio di “io so, ma non ho le prove”; o forse, tutti e due, insieme, fanno l’essenza dell’italiano: pavido, timoroso del potere, arrampicatore, mitomane, sempre pronto a voltare gabbana; ma anche sospettoso e fiero. L’italiano si percepisce pasoliniano ma è chiaramente fantozziano. Che poi ci si chiede: oggi Fantozzi sarebbe pro o contro Putin? Che direbbe della questione palestinese? E Pasolini sarebbe woke o non woke? Forse entrambi avrebbero avuto la sbandata Cinquestelle. Vabbè. Chissà.
Intanto, negli anni, mi rendo conto, ho proceduto a un inconsapevole e laico pellegrinaggio fantozziano più che pasoliniano. Muovendomi nel paese anzi nazione, all’occorrenza, cercavo tracce dell’amato Ragioniere. A Roma è facile. La Megaditta a un certo punto fu la Regione Lazio, il palazzone ad H sullo stradone della via Cristoforo Colombo, dove Fantozzi insufflato dal radicalizzato compagno Folagra tira una pietra contro i vetri della spettabile dirigenza. La Casa di Fantozzi è appunto sulla Prenestina, con l’alzata della tangenziale che gli passa sotto la finestra per prendere l’autobus al volo (in altre scene invece è al Testaccio, lo diciamo per i fanatici fantozziani che sono milioni e giustamente severi). Ma se avrò visto cinquanta volte la scena in cui Fantozzi insulta il busto in bronzo della madre del mega direttore conte Diego Catellani, posto nell’atrio della megaditta, grande fu lo stupore quando in visita ai locali della Rizzoli a Crescenzago, tra due ali di scale come nel film, troneggiava proprio un identico busto del fondatore, forse ispirazione per quella storia (non so però se Rizzoli amasse il biliardo). Quando si andò per la prima volta a Capri, per fortuna non in Bianchina (“undici ore e quaranta di viaggio”), in quella località che credo ancora per i tre quarti della Nazione significhi proprio Fantozzi, prima di “Parthenope”, mi affannai invece a cercare il famigerato negozio di “tragici zoccoli del pescatore caprese che a Calboni donavano moltissimo”; si chiama De Martino, sta su via Vittorio Emanuele, dove Fantozzi caracolla giù verso l’hotel Quisisana. Lì si tuffa col costume ascellare nella piscina senz’acqua, convinto di aver finalmente conquistato la Silvani, dissanguandosi di cambiali per avere la suite presidenziale (quant’è? Ottantamila! Solo? Fantozzi pensò “al mese”). Una scena che ho vissuto anche io recentemente sulla Torre Velasca appena ristrutturata, con splendidi attici in affitto, chiedendo per curiosità il prezzo, “ma è pochissimo”, risposta “è al giorno”. Siamo tutti Fantozzi.
Ma tornando a Capri, durante le riprese del “Secondo tragico Fantozzi” subito scritto e girato nel ‘76, Villaggio occupava le camere 507 e 508, mi raccontò l’antico direttore del Quisisana Gianni Chervatin. La scena della piscina fu tutta girata in un giorno, con l’albergo chiuso per ristrutturazione, e il resto all’Hotel delle Nazioni, a Roma. A Villa Miani invece, a Monte Mario, capitò di andare a dei matrimoni, e lì però allignava il fantasma del Dobermann Igor il Terribile XXXII dei Serbelloni. Nei pressi di Courmayeur, a Entrèves, qualche anno fa, per una presentazione di un libro (evento in sé sommamente fantozziano, perché di nuovo siamo tutti Fantozzi) mi misi in cerca del ristorante “La maison de Filippo”, quello del “ci vediamo tutti da Filippo per la polenta”, dove la contessina dà appuntamento.
L’Italia insomma è disseminata di “segni” fantozziani. Ma poi mi sono progressivamente reso conto che non c’è bisogno di pellegrinaggi perché il fantozziano è ossessivamente tra noi; alla Rai, il palazzone di viale Mazzini oggi in via di smantellamento per la presenza dell’amianto, presentava una precisa distinzione di classi, con parquet/moquette, la lampada imitazione e la lampada di design, il ficus singolo e doppio a salire verso i piani dei dirigenti, come avviene peraltro in tante aziende. Ma oggi saremmo curiosi di vedere i dipendenti Rai che appunto, orfani di viale Mazzini in ristrutturazione, devono migrare all’Eur in un palazzo provvisorio, con scrivanie limitate perché non c’è spazio per tutti. Ci penserà il Filini del caso o ci sarà un “clamoroso sorteggione”?
Oggi peraltro dei nuovi Fantozzi e Filini direbbero i loro “dichi”, “batti prima lei”, non più al tennis ma al circolo del padel dove si sarebbero iscritti pagando a rate col nuovo sistema Scalapay (ma Filini investe anche in criptovalute).
Dopo la pandemia, Fantozzi lavora da casa, ma con orari flessibili che in realtà significano 24 ore su 24. Il suo capo gli scrive su WhatsApp a mezzanotte, mentre la moglie Pina sta seguendo la beauty routine dell’Estetista Cinica online. Durante una call su Zoom, dimentica di disattivare la webcam e viene visto in mutande dal Mega direttore con fondale finto di Dubai (ma in realtà a Sesto San Giovanni, perché oggi anche il Mega direttore è impoverito).
Fantozzi e Filini parlerebbero poi inglese, anzi il milanenglish delle “call”, della “mission”, della “vision”, della traduzione sgangherata per darsi un tono, per cui oggi “coerente” è diventato “consistente”, che andrebbe bene per una zuppa o un bonifico, mentre il riferimento è la “reference”, negli annunci del treno è “la toilet”, proprio all’americana.
Il ragionier Fonelli dell’ufficio Sinistri collega di Fantozzi non sarebbe più un “caro impiegato” ma “ceo” (parola che non saprebbe pronunciare, quindi “sio presso se stesso”), che fa le call nel vagone del Frecciarossa, freelance a partita Iva e abita in zona “South of Prada” con altri sette nello scantinato che però chiama coliving (i nuovi Fantozzi non abitano più nelle case popolari, ormai diventate bene di lusso, ripristinate nella “rigenerazione urbana” col Salvamilano). Ma uno spinoff che vedrei volentieri è Fantozzi che viene scambiato per un occupante abusivo di case popolari e viene tormentato per mesi dalle troupe di “Fuori dal Coro”, quegli stanatori di occupanti professionisti che sono un genere televisivo ormai a sé, e da noi molto amato, una specie di anti “casa a prima vista”, con i personaggi fissi, il vigile urbano, il sindaco, e il clash degli accenti regionali, gli inviati milanesi e gli occupanti pugliesi o maghrebini, “guarda che è fuorilegge!”, “t’amazoooo”). In vacanza comunque Fantozzi andrebbe al glamping. Mentre Calboni potrebbe essere uno di quegli influencer di provincia esperti del vestiario che si lanciano nel “lifestyle”, insegnano come vestirsi “old money”, come si portano i gemelli e come si mette la pochette, taggandosi a St. Moritz e Forte dei Marmi in stories tarocche.
Ci sono poi dei termini fantozziani che andrebbero “risemantizzati”; come la “sciabolata”, che nel libro avviene al famigerato ristorante giapponese (“a tutti era sembrata una statua di un samurai, balzò con un urlo un samurai vero che urlò ‘Banzai’ e amputò di netto con una sciabolata la mano destra dello sventurato”). Oggi, è chiaro, Fantozzi, Filini e Calboni andrebbero a bere dei “drinks” non più all’Ippopotamo ma alla Gintoneria di Davide, l’ex genero di Wanna Marchi a Milano, e lì giù a sciabolare bottiglie costosissime. Il problema è che al ritorno non troverebbero mai tutti quei taxi.