Gli insegnanti non dovrebbero cercare di dare risposte, ma innanzitutto di far sorgere domande immergendosi nella bellezza della conoscenza
È arrivato settembre con i suoi nuovi inizi, le sue promesse, le sue immagini di zaini, di libri, di volti che fra trattenuta allegria e saluti e implicite attese si avviano salendo, mentre l’estate si allontana, le scale. E negli sguardi quell’abbrivio di novità che probabilmente presto, tuttavia, rischierà di lasciare il posto all’incedere ordinario della quotidiana routine, con la sua mancanza di stupore, con la sua abitudine. Conservare l’entusiasmo che caratterizza l’inizio (“in ogni inizio è insita una magia”, scriveva Hermann Hesse) quella curiosità che custodisce la tensione dello sguardo, quell’insolita attesa di ciò che accadrà: questo pare il compito più difficile per gli insegnanti, chiamati a mostrare agli studenti, nell’intraprendere il cammino di un nuovo anno, che ciò che sarà loro proposto è un “mondo” da scoprire, che non c’è nulla di meglio da fare che porvi davvero l’attenzione e magari percepire la verità della grande intuizione di Chesterton: “Non esiste sulla terra qualcosa che costituisca un argomento poco interessante; l’unica cosa che può esistere è una persona poco interessata”.
Fare in modo che l’ora di scuola sia fatta non appena di nozioni e competenze, ma di pagine, testi, argomenti che meritino di essere ricordati, cioè – letteralmente – tenuti nel cuore. Accompagnare, insomma, gli studenti soprattutto verso il desiderio. Perché non si tratta tanto di fornire risposte, ma innanzitutto di destare domande, creando quel “vuoto di sapere” che Massimo Recalcati descrive nel libro intitolato L’ora di lezione (Einaudi, 2014): “Rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio, (…) mettere in movimento l’allievo”, perché “non c’è possibilità di raggiungere un sapere vero se non attivandosi in un processo di ricerca”. Precisamente sul desiderio andrebbe incentrata un’azione educativa che troppo spesso rischia di ridursi a trasmissione di conoscenze per le quali – proprio qui nascono indifferenza e noia – non vi è alcuna domanda. La prima cosa importante è invece destare un bisogno, perché, come la sapienza antica ci ricorda, “i giovani non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere”, e tutti sappiamo che un apprendimento meccanico – utile magari per la verifica, ma incapace di integrarsi nell’esperienza – è ben presto dimenticato.
Forse ciò che desta la domanda è la bellezza. Quella bellezza che la scuola talora sacrifica in nome della strumentalità, degli obiettivi inerenti al mondo del lavoro, di ciò che Friedrich Schiller definì “il grande idolo del nostro tempo”: l’utile. Bisogna avere la lealtà di riconoscere che cosa accade quando gli studenti sperimentano la gratuità dell’arte, l’immersione nella letteratura, la densità della poesia, la complessità del ragionamento, le profondità della storia: tutto ciò che non ha utilità pratica immediata, perché si orienta a un obiettivo ben più rilevante e nobile, che è il bene della persona. È decisivo che l’ora di lezione, prima che utile, sia bella. Che i nostri studenti escano da scuola con l’esperienza di una bellezza non certo afferrata ma almeno intravista, intuita, da tenere stretta a sé, da tornare a cercare il giorno dopo.
E nei momenti apparentemente più aridi, quando si troveranno di fronte ad esercizi che sembrano superflui e vuoti, ricordare le parole di Simone Weil: “Se con vera attenzione si cerca di risolvere un problema di geometria e in capo a un’ora si è al punto di partenza, in ogni minuto di quell’ora si è comunque compiuto un progresso in un’altra dimensione più misteriosa. Senza che lo si avverta o lo si sappia, quello sforzo in apparenza sterile e infruttuoso ha portato più luce nell’anima”. Ciò che conta non sono solo i contenuti che l’educatore può offrire, ma la luce che riesce a gettare nell’anima. Perché in fondo – tra conoscenze e verifiche, interrogazioni e competenze – il compito della scuola non è tanto occuparsi di ciò che da grandi gli studenti faranno ma, soprattutto, di ciò che essi saranno.