A Pechino Vladimir Putin sembra di buon umore: nel caos vede la vittoria. Ma ha poco da stare allegro perché la regia è in occidente
Il viaggio di Vladimir Putin a Pechino sembra avergli messo il buon umore. Questa settimana molte foto del forum della Via della seta lo ritraevano sorridente, cosa insolita. Durante una conferenza stampa pareva sorridere anche mentre parlava degli Atacms, i missili a lungo raggio che Washington ha fornito a Kyiv in gran segreto e con i quali l’esercito ucraino ha colpito gli aeroporti militari russi nelle zone occupate. L’operazione Libellula è stata un successo per gli ucraini, ma Putin ha detto che gli americani vogliono soltanto prolungare la guerra, altrimenti che interesse avrebbero a fornire certe armi. E poi ha aggiunto: se Mosca sta davvero perdendo, perché mandare gli Atacms? E scherzando ha suggerito agli americani di riprendersi i missili e qualsiasi altra arma, e a Biden di andare in Russia per mangiarsi un bel bliny – una crèpe – e bersi un tè. Ci sono momenti in cui inaspettatamente il presidente russo recupera la verve, quando si convince che per lui va tutto bene: la guerra tra Israele e Hamas sembra avergli dato una nuova vitalità. Anche gli incontri che ha tenuto a Pechino lo hanno messo di buon umore, perché si è incontrato con chi vede il mondo come lui e che come strategia contempla soltanto il caos. Ma il caos, per definizione, non ha una regia, e anzi, per tradizione, Putin ha sempre avuto molta paura del caos, come mai ora se ne compiace? A Pechino ha ricevuto un posto di onore, ha avuto l’impressione che il clan degli anormalizzatori sia ricco e animato, ed è arrivato al punto di proporsi come possibile mediatore tra Israele e Hamas. Lo ha detto al telefono al premier israeliano Benjamin Netanyahu e crede che quanto sta accadendo in medio oriente stia allontanando l’attenzione dall’Ucraina, stia sparpagliando le forze occidentali e facendo recuperare forza a Mosca, a Pechino e a Teheran, bravissimi a sommare il caos, ma in questo caos sono spesso i primi a perdersi. Siamo partite dal buonumore di Vladimir Putin per capire quanto sono collegati l’Ucraina e Israele, dove può davvero arrivare il clan degli anormalizzatori e quanto invece è coordinata la nostra risposta.
Volodymyr Zelensky. Il primo a dirlo con chiarezza è stato Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino ha tracciato un legame tra il male che Kyiv vede e subisce da oltre seicento giorni e l’attacco coordinato che ha stravolto Israele il 7 ottobre scorso. E’ lo stesso male, ha detto Zelensky. E’ lo stesso odio perché i terroristi di Hamas irrompendo nella vita di alcuni kibbutz vicini alla Striscia di Gaza hanno ucciso, stuprato, massacrato, umiliato e non esiste nessuna giustificazione che tenga, nessuna. Lo stesso hanno fatto e fanno i russi in Ucraina. E’ lo stesso male, la stessa linea che unisce Kyiv e Gerusalemme, e Zelensky ha dato la sua completa solidarietà al popolo israeliano. Senza dimenticare di dover portare avanti però la sua di resistenza, che da mesi viene adombrata da ingiuste dosi di scetticismo. Putin a Pechino ha detto, come sempre, che per la Russia tutto procede bene in Ucraina e che la famosa controffensiva di Kyiv è cosa risibile. Non lo è e l’attacco con gli Atacms lo ha dimostrato. Gli ucraini lavoravano da tempo all’operazione Libellula, che ha consentito di colpire la logistica russa che si trova negli aeroporti sul territorio occupato dai russi. Sono stati distrutti nove elicotteri, un lanciamissile, un deposito di munizioni, attrezzature speciali e parte delle piste adesso è inservibile. Zelensky ha dovuto chiedere, insistere, pregare per ottenere gli Atacms, ma gli americani titubavano, temevano che con i missili a lungo raggio sarebbero state infrante le linee rosse. L’Ucraina ha dato prova di saperli usare e di essere di parola. Se il presidente russo si rallegra pensando che la guerra tra Hamas e Israele distolga l’attenzione dall’Ucraina, Zelensky sa che il rischio esiste, ma è stato abile a collegare i due conflitti e ha ragione: sono due fronti della stessa battaglia e anche gli attori sono gli stessi. Contro Kyiv c’è anche l’Iran che ha fornito droni e missili alla Russia e che minaccia da sempre l’esistenza dello stato ebraico fomentando i gruppi terroristi che gli vivono attorno. Contro Gerusalemme vengono usati lanciarazzi anticarro F-7 probabilmente di tecnologia nordcoreana e sempre Pyongyang fornisce munizioni alla Russia da usare in Ucraina. Proprio Zelensky, quando la guerra era appena iniziata, aveva chiesto a Israele di fare da mediatore, la risposta era stata fredda, da allora di premier in Israele ne sono cambiati tre.
Benjamin Netanyahu. Netanyahu è tornato al governo in Israele quando la guerra in Ucraina era iniziata da quasi un anno. Prima di lui c’erano stati Naftali Bennett e Yair Lapid che avevano avuto due atteggiamenti molto diversi nei confronti di Kyiv, Il primo non aveva neppure condannato apertamente l’invasione russa per paura di una ritorsione in medio oriente, il secondo invece aveva aumentato gli aiuti umanitari e detto che il posto di Israele è al fianco di Kyiv. Arrivato Bibi si temeva un ritorno a un atteggiamento più accomodante con Mosca e con Putin, le cose non erano partite benissimo con le dichiarazioni ambigue del ministro degli Esteri pasticcione Eli Cohen, ma Netanyahu ha riconfermato il suo sostegno, gli aiuti umanitari, ha mandato il suo ministro in visita a Kyiv, ha incontrato Zelensky, ma nulla di più: niente armi, servono a noi. Niente preziosissimo Iron dome, il sistema antimissile che protegge i cieli israeliani: se le sue componenti dovessero finire in mano russa o iraniana per noi sarebbe la fine. Difficile non pensare che Israele avesse le sue ragioni, difficile non capire quanto le armi israeliane sarebbero importanti per la difesa dell’Ucraina. Dopo il 7 ottobre, Zelensky ha anche proposto un viaggio in Israele per mostrare la sua solidarietà a Gerusalemme, ma il governo israeliano, che pure ha accolto altri capi di stato tra cui Joe Biden, ha detto che non era il momento. All’apertura di Kyiv, Israele non ha risposto con altrettanta solidarietà, ma la Russia con cui intratteneva un rapporto di collaborazione prudente proprio per contenere l’Iran è sempre più un problema, un rischio, perché è il capo degli anormalizzatori e Israele invece ha fatto una scelta: normalizzare il più possibile i rapporti con i suoi vicini puntando al solo grande e imprescindibile alleato che sono gli Stati Uniti. Anche l’Ue, in questo, conta poco.
Ursula von der Leyen. Quando Ursula von der Leyen ha sentito che la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, sarebbe andata in visita in Israele, la scorsa settimana, ha detto: vengo anche io. Le cronache bruxellesi indugiano dal 13 ottobre, giorno della visita, sui dettagli di questa decisione, qualcuno ci ha detto sbrigativamente: von der Leyen si è praticamente presentata pronta per partire all’aereo. Il fatto che non si sia consultata con Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, e con Josep Borrell, il capo della diplomazia dell’Unione europea, ha fatto indignare molti, soprattutto perché non è la prima volta che, sulle questioni internazionali che sono una competenza diciamo diffusa – ricorderete la domanda degli americani a inizio secolo: se c’è un’urgenza nel cuore della notte, che numero dobbiamo chiamare in Europa? – la von der Leyen prende l’iniziativa e mette in secondo piano gli altri. Il conflitto con Michel è ormai pettegolezzo costante – il veterano della bolla, Jean Quatremer, scrive su Libération che la von der Leyen “detesta” Michel e Borrell, e aggiunge dentro una parentesi: ma non c’è persona che lei non detesti – e molti pongono la data di inizio nel celebre “scandalo della sedia”, quando in visita dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, von der Leyen si ritrovò seduta su un divano e non di fianco agli altri leader a colloquio. Ma il coro di condanna contro la presidente della Commissione c’è stato non certo soltanto per ragioni di protocollo o di rivalità personali o di trame elettorali in vista del voto alle europee del giugno del prossimo anno: è quel che ha detto in Israele ad aver fatto infuriare un po’ tutta l’Europa. La presidente ha avuto l’ardire di presentarsi davanti a Netanyahu, il quale probabilmente non ha creduto alle sue orecchie conoscendo le parole che di solito usa l’Ue, dicendo che Israele “ha il diritto e il dovere di difendersi e di proteggere il suo popolo” dopo l’attacco efferato di Hamas. Senza far riferimento ai civili palestinesi, von der Leyen ha poi detto: “Sottoscrivo pienamente l’appello a Hamas perché liberi immediatamente gli ostaggi e rinunci a utilizzare i civili come scudi, cosa che Hamas fa costantemente” in quanto costituisce “una minaccia non soltanto per Israele ma anche per il popolo palestinese”. Molti diplomatici sono corsi dai giornalisti a dire che la presidente parlava secondo “una sua sensibilità personale” e in privato dicevano che anni di appeasement nei confronti del mondo arabo ma anche nei confronti dell’Iran erano stati vanificati nel giro di due minuti.
Charles Michel. Michel è corso ai ripari, ha convocato un vertice in cui si è stabilito che Israele deve rispettare il diritto internazionale mentre circolavano dichiarazioni anonime ma in cui si diceva che ora la sicurezza europea è in pericolo. Al Parlamento europeo ieri, von der Leyen ha ribadito la sua posizione, ha detto che “la scena all’ospedale al Ahli di Gaza è orribile, non ci sono scuse all’uccisione dei civili” e che è necessario stabilire la responsabilità di questo attacco e ha aggiunto quella che è considerata la posizione americana: “Non c’è contraddizione tra la solidarietà a Israele e un’azione umanitaria per i palestinesi”. Von der Leyen si porta addosso l’etichetta di “americana” da molto tempo e su molti fronti, e in questo preciso può anche ribadire il suo essere tedesca, visto che il governo di Berlino è sulle stesse posizioni. Non è sempre stato così e anzi “la tedesca” ha agito spesso per agevolare il suo governo o almeno le sue tempistiche, ma in questo caso il problema non è personale: sulla difesa dell’Ucraina c’è un’unità solida in Europa tessuta insieme da von der Leyen e da molti altri, sulla difesa di Israele no, ed è per questo che von der Leyen va, come dice una fonte europea, “rimessa al suo posto”.
La sintonia tra von der Leyen e Joe Biden è nota, anche se il presidente americano ha potuto mostrare la sua vicinanza a Israele senza impedimenti, e infatti l’abbraccio con Netanyahu entrerà nell’iconografia globale. E’ una sintonia che, come in altri casi, travalica le appartenenze politiche, ma si fonda sulla difesa di un interesse comune, liberale e occidentale. Nell’Europa dalle risorse scarse, la scelta tra l’aiuto all’Ucraina e l’aiuto a Israele non si pone per ragioni ideologiche e anche fattuali, nell’America di Biden invece la scelta viene continuamente reiterata dal mondo conservatore, che vuole aiutare Israele ma non l’Ucraina e che ribalta sull’Europa la sua disfunzione trumpiana. Il 2024 sarà un anno di enormi cambiamenti, ha ragione Biden: abbracciamoci stretti.