La procedura con cui una donna di 55 anni affetta da sclerosi multipla è stata aiutata medicalmente a morire è contro la legge: non si può costringere un medico a dare corso a un sudicio assistito
Il 28 novembre a Trieste una donna di 55 anni affetta da sclerosi multipla è stata medicalmente aiutata a morire. La donna aveva fatto ricorso contro l’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (ASUGI) chiedendo fosse attivata “la procedura” per la morte medicalmente assistita. Oggi, dopo un’ordinanza della Sezione Civile del Tribunale di Trieste che tra l’altro avrebbe anche condannato l’Asl al pagamento di cinquecento euro per ogni giorno di ritardo nell’accertare i requisiti descritti nella sentenza 242/2019 della Corte, si è saputo che la procedura è stata messa in atto.
Di fronte a una morte provocata, anche se su richiesta, tocca ricordare i fatti. In primo luogo la sentenza 242/2019, lungi dal descrivere come deve essere messa in atto “la procedura” della morte assistita, si limita a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio) in alcuni casi selezionati. Chi oggi esulta lo fa in modo da accrescere la confusione e si riferisce alla sentenza come se questa parlasse di obbligo del Sistema Sanitario Nazionale a dar corso al suicidio assistito.
In Italia una legge dello stato in materia non esiste: l’unica legge vigente è la 219 del 2017 che non cita in nessuna parte quanto alcuni vorrebbero leggere nella norma italiana. Si legge tra l’altro che la paziente fosse ancora in grado di respirare in modo autonomo, sostenuta nelle ore del riposo dalla CPAP (Continuous Positive Airway Pressure) ma non da una tracheostomia con ventilazione meccanica invasiva. Se questo fosse vero si sarebbe andati oltre la sentenza 242/2019 dal momento che la CPAP non rientra tra i mezzi di sostegno vitale. E non ci vuole molto a capire che considerare, via tribunale, trattamenti di sostegno vitale l’assistenza alle persone non autosufficienti apre le porte all’eutanasia di stato (e allontana il fine vita dalla zona grigia del rapporto medico-paziente). Non era ciò che autorizzava la Consulta, non è ciò che è previsto dalla legge. E fino a prova contraria i giudici la legge più che interpretarla dovrebbe rispettarla.