Una storia di vita dura, dolorosa, allegra. Il gran racconto, senza messaggi, di Caroline Kitchener del Washington Post
Mettete da parte le cialtronate del generale Vannacci, per un istante, allontanatevi dal chiacchiericcio della politica e prendetevi qualche istante per leggere una storia di vita. Dura, dolorosa, allegra. Caroline Kitchener è una giornalista americana piuttosto famosa. Ha vinto numerosi premi. Ha ottenuto un Pulitzer nel 2023. Ha lavorato per l’Atlantic, il Guardian, Vox e il Wall Street Journal. Ha scritto un libro di discreto successo sulla vita di cinque donne nel loro primo anno dopo la laurea (“Post Grad: Five Women and Their First Year Out of College”). E da qualche tempo lavora al Washington Post dove si occupa di un argomento molto delicato: l’aborto. All’inizio di agosto, Caroline Kitchener ha pubblicato un reportage che ha fatto molto discutere. Kitchener, nel 2021, è andata a casa di una coppia di teenager in Texas. Lui si chiama Billy High, lei si chiama Brooke Alexander. Hanno scoperto di aspettare un bambino nella tarda notte del 29 agosto, due giorni prima dell’introduzione, su decisione del governatore del Texas, dell’Heartbeat Act, la legislazione più restrittiva degli Stati Uniti sul tema dell’interruzione di gravidanza: aborti vietati una volta che un’ecografia rilevi l’attività cardiaca, ovvero a circa sei settimane di gravidanza.
Il 29 agosto 2021, Billy e Brooke volevano abortire. Quella notte Brooke, una volta fatto il test di gravidanza, erano circa le 11 di sera, decise di andare da una sua amica: era disperata. Aveva 48 ore di tempo per abortire e valutò ogni opzione. La clinica per aborti nel sud del Texas, a due ore e mezza da dove viveva lei, non aveva più posti liberi nei due giorni successivi. Le donne di tutto lo stato che avevano programmato un’interruzione di gravidanza si erano affrettate a entrare in clinica e prima che la legge entrasse in vigore. Quando Brooke chiamò la clinica, un’infermiera dall’altra parte del telefono le suggerì alcuni indirizzi di cliniche nel New Mexico, a 13 ore di macchina da Corpus Christi, la città di Brooke, dove andare ad abortire. Troppo lontano. Il giorno dopo, Brooke chiese alla madre di aiutarla. Le comunica di essere incinta e chiede di accompagnarla a fare un’ecografia nelle vicinanze: se il feto avesse meno di sei settimane, ci potrebbe essere ancora tempo per abortire. Brooke arriva così al Pregnancy Center del Coastal Bend. Le viene chiesto di compilare un modulo. Alla fine del modulo arriva una domanda: “Se sei incinta, quali sono le tue intenzioni?”.
Brooke dice di voler abortire. Ma non sa che il centro in cui si trova è uno delle migliaia di centri affiliati a organizzazioni anti abortiste. A Brooke viene assegnata una figura a cui spiegare le ragioni della sua scelta. Brooke incontra la persona, si chiama Arnholt, viene portata in una stanza con la madre ed elenca tutti i motivi per cui voleva abortire. Dice che si era appena iscritta a un corso di Proprietà immobiliare al Community College, che sarebbe stata la sua prima volta in classe da quando aveva abbandonato la scuola superiore tre anni prima, a 15 anni, che lei e Billy si frequentavano da soli tre mesi. Arnholt, l’uomo scelto dalla struttura per parlare con Brooke, e dissuaderla, ascoltate le sue motivazioni fa la sua mossa. Forte. Apre un opuscolo contro l’aborto distribuito dallo stato del Texas (“A Woman’s Right to Know”) e arriva a una pagina intitolata “Rischi di aborto”. Un lungo elenco. Brooke entra nel pallone. Pochi minuti dopo, arrivano nella stanza degli ultrasuoni. Brooke si sdraia e guarda di fronte a sé una grande tv a schermo piatto. Il medico le spalma il gel, preme la sonda sul ventre.
Brooke, racconterà successivamente, sperava di vedere un feto senza battito. Il medico, dopo qualche secondo, le disse di alzare il capo e di guardare il video. Non c’era un battito, ce n’erano due. Brooke aveva in grembo due gemelli. E avevano più di sei settimane. Brooke, per un attimo, pensò che se ci avesse davvero provato poteva arrivare nel New Mexico per abortire. Probabilmente suo fratello maggiore le avrebbe prestato i soldi per arrivarci. Ma non riusciva a smettere di fissare la linea gialla pulsante sullo schermo a ultrasuoni. Alla fine, Arnholt si rivolse a Brooke e le chiese se li avrebbe tenuti. Brooke rispose di sì.
Due anni dopo, Caroline Kitchener è tornata dai ragazzi. E’ stata con loro alcuni giorni e ha scritto un racconto così intitolato: “Un divieto di aborto li ha resi genitori adolescenti”. Kitchener ha passato diversi mesi a descrivere sul Washington Post l’orrore della legge del Texas e l’orrore della revisione della Roe v. Wade, la storica sentenza che stabiliva il diritto costituzionale all’aborto negli Stati Uniti dal 1973. Di fronte a Brooke e Billy è entrata in crisi di coscienza. Kitchener detesta le leggi restrittive sull’aborto, considera i pro life come dei fondamentalisti, la linea del suo giornale è ferocemente critica contro le norme del Texas. Kitchener ha dato conto sul Washington Post di uno studio fatto con alcune donne che hanno avuto una gravidanza indesiderata. Lo studio è dell’Università della California, di San Francisco. Sono state ascoltate mille donne nel corso di otto anni. La gran parte delle donne a cui viene impedito l’aborto ha detto di aver avuto, nel corso della propria vita, conseguenze finanziarie, sanitarie e famigliari molto pesanti. Ma nonostante questo, riconosce la stessa Kitchener, la storia di Brooke e Billy è un manifesto di vita, di allegria, di sofferenza e di amore. I due anni trascorsi, specie per Brooke, sono stati complicati, come può essere complicato per una ragazza di diciott’anni ritrovarsi improvvisamente incinta di due gemelli. Ha sofferto, è andata in analisi, ha attraversato mesi di panico. Ma ora Brooke dice di essere orgogliosa delle decisioni che lei e Billy hanno preso per la loro famiglia. Billy ora è un meccanico dell’esercito americano, dove si è arruolato per garantire un reddito fisso alla sua famiglia, mentre Brooke si prende cura delle bambine a tempo pieno. Le gemelle sono sani e felici, vivono in mezzo a macchie di uova strapazzate, sono assorbiti dalle lezioni di nuoto settimanali e dalle favole della buonanotte che Brooke e Billy leggono ad alta voce ogni sera. Al controllo delle figlie, dopo un anno di vita, Brooke si è riempita d’orgoglio, racconta Kitchener, quando il dottore ha definito le sue figlie “davvero intelligenti”.
E’ stata una scelta dolorosa, che mai avrebbero fatto senza quella legge, ma è stata una scelta felice, dicono oggi. Non si sentono un modello, non danno lezioni di vita, non hanno smesso di considerare quelle leggi come leggi troppo restrittive. Ma la loro storia ha fatto discutere. Ha fatto commuovere. Ha fatto riflettere. L’articolo del Post, hanno notato alcuni siti pro life americani, è un pezzo fintamente empatico, perché dedica più parole alla descrizione alle opinioni a favore dell’aborto che delle opinioni a favore della vita. Ma la storia di Billy e Brooke è, in ogni caso, una storia formidabile. E’ la storia di una Juno, la protagonista del celebre film di Jason Reitman del 2007. E’ la storia di una coppia costretta a non abortire, a causa di una legge discussa e che limita fortemente la possibilità di “choice”, e che però non rimpiange di non aver fatto quella scelta. Nessun esempio. Nessun modello. Ma un punto c’è: gli si può dar torto di essere felici? Viva Billy. Viva Brooke.