Con von der Leyen o senza, l’Ue deve cambiare, preparasi al ritorno di Trump, alle minacce di Putin, ai virus interni. Ricetta ambiziosa ma necessaria per il futuro
Ursula von der Leyen è pronta, si avvicina alla sfida del suo secondo mandato senza poter evitare di guardare indietro. I bilanci sono fondamentali, figuriamoci quando si hanno alle spalle le più grandi crisi internazionali degli ultimi settant’anni, una pandemia senza precedenti e due guerre, una alle porte dell’Europa, scatenata da chi fino a poco prima era considerato, in modo distorto, un partner, almeno commerciale. Oggi il Parlamento europeo voterà la riconferma o la sconfessione di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea, l’ex ministra della Difesa tedesca, nominata cinque anni fa con un’intesa promossa da Emmanuel Macron era arrivata come un personaggio inaspettato, si è trovata a gestire anni durissimi, si è accomodata nel suo ruolo e adesso si aspetta l’acclamazione, il trionfo, l’incoronazione a regina d’Europa. Le prospettive sono buone, le speranze sono alte, di sotterfugi e accordi con chi non fa parte della sua maggioranza, composta da popolari, socialisti e liberali, può anche fare a meno, ma i franchi tiratori esistono. I tradimenti sono tali proprio perché sono improvvisi, inaspettati, avvengono alle spalle, e la spalla più esposta, in questo momento, per von der Leyen è proprio quella del suo stesso partito: il Partito popolare europeo con i suoi bollori, le sue crisi interne, le sue insoddisfazioni nei confronti della presidente della Commissione e dei cinque anni trascorsi e presentati in dote per la rielezione. Von der Leyen si appresta a farsi incoronare, ma è pronta a guidare l’Ue che verrà attraverso quella che diversi esperti hanno definito la legislatura esistenziale? Vanno pesati i meriti e i demeriti della presidente e vanno messi in relazione con le difficoltà e le sfide, senza perdere di vista il fatto che questa Unione europea sta cambiando, deve cambiare e non può sbandare: questo è il momento della forza.
Il verdetto. Ursula von der Leyen è stata un brava amministratrice, è efficiente, è una testarda negoziatrice. Sono doti importanti, da non sottovalutare, ma che non sono sufficienti. Precisa, compita, determinata, von der Leyen non ha visione. Sempre pronta a negoziare su tutto, a livello interno questo ha prodotto dei danni: per esempio riguardo allo stato di diritto, che è stata disposta a tralasciare quando si trattava di discutere con l’Ungheria di Viktor Orbán o con la Polonia quando era governata dagli euroscettici del PiS. Far passare l’idea che, dopo tutto, sullo stato di diritto è possibile chiudere un occhio è un danno non indifferente per un’Unione basata sui valori. L’Ungheria l’ha capito, sfrutta la sua posizione, non ha paura delle minacce e sa che prima o poi sulle sue beghe antidemocratiche Bruxelles cederà. Si è creato un precedente ingovernabile, e se in Polonia oggi non ci fosse un governo guidato dal popolare Donald Tusk, i problemi per l’Ue sarebbero doppi. Per uscire dalla sua crisi dello stato di diritto la Polonia ha dovuto fare da sola, e oggi dà le carte in Europa nel decidere le nomine, mentre von der Leyen durante il suo primo mandato aveva dimostrato che in fondo, anche i valori, sono negoziabili. Molto dannoso e il danno nasce dall’incapacità della presidente di guardare al futuro. La situazione peggiora se si guarda fuori dall’Europa. Von der Leyen non ha mai sbandato riguardo alla posizione internazionale da dare all’Ue, soprattutto sull’Ucraina. Si è riempita la bocca di sentiti “slava Ukraini”, ma ha dimostrato di non sapersi immaginare un’Europa forte, consapevole del suo posto nel mondo, pronta a rivoluzionarsi quando è necessario. Nei cedimenti di visione, la presidente si è spesso affidata alla linea di Berlino, in cui ugualmente non c’è una leadership visionaria, ma piuttosto un governo che va avanti con screzi di coalizione e con un elettorato che ha già mandato un chiaro segnale negativo. Non è un capriccio insistere su questa incapacità di visione di von der Leyen, perché l’Ue deve prepararsi a tutto, anche al possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. In questi anni la presidente della Commissione si è fidata del suo rapporto con Joe Biden, del suo “America is back” promettente pronunciato nel 2021, ma come con Biden l’America è tornata, potrebbe di nuovo chiudersi in se stessa e se questa posizione è stata difficile da gestire durante la prima Amministrazione Trump, ora con una guerra ai confini diventa un rischio esistenziale.
L’Europa a prova di Trump-Vance. Il vertice della Nato a Washington si è chiuso a pochi giorni da questa settimana cruciale per l’Europa, cioè poco tempo fa, ma sembra passato un secolo. Nella capitale americana, s’era discusso di come costruire un’Alleanza atlantica “a prova di Donald Trump”, ma si era badato soprattutto a controllare lo stato di salute di Joe Biden: quante gaffe ha fatto, quante volte si è imbesuito, quanto lento ha camminato e via dicendo. Poi uno sparo che ha mancato di un centimetro la testa di Trump, durante il comizio assolato di Butler, in Pennsylvania, ha cambiato tutto. La convention repubblicana a Milwaukee è diventata un inno al sopravvissuto Trump, le divisioni interne si sono appianate ed è stato nominato il vicepresidente: J.D. Vance. Vance ha la metà degli anni del suo capo e ha elaborato nel tempo, e soprattutto in questi mesi in cui ha fatto di tutto per essere scelto come vice, una dottrina di politica estera che ha fornito molti argomenti anche allo stesso Trump. Riguarda principalmente l’Ucraina e sostiene che Kyiv debba smettere di difendersi dai russi per agevolare la pace, così può preservare i suoi soldati, tanto la possibilità di ritornare ai confini originari violati da Vladimir Putin è “fantasiosa”. Ce n’è anche per l’Europa, nella dottrina Vance (a differenza di quel che avviene con Trump, che è troppo poco coerente per elaborare una dottrina, innamorato com’è del proprio istinto, Vance è metodico): “Abbiamo bisogno che l’Europa svolga un ruolo più importante nella sicurezza, e non è perché non ci interessi l’Europa, è perché dobbiamo riconoscere che viviamo in un mondo in cui le risorse sono scarse”. Bisogna scegliere insomma, le priorità di Vance sono altre, e ha anche un approccio pedagogico al nostro continente: “Il problema con l’Europa è che non fornisce abbastanza deterrenza da sola perché non ha mai preso l’iniziativa sulla propria sicurezza. La protezione americana ha permesso agli europei di atrofizzarsi”. Non è un caso che l’unico europeo che si salva sia l’ungherese Viktor Orbán, il globetrotter dei leader illiberali, un’ispirazione per Vance soprattutto per quel che riguarda le battaglie culturali, mentre la Germania è in fondo alla lista degli alleati credibili, “la condotta di Berlino in questa guerra è vergognosa – aveva scritto Vance l’anno scorso – Tutte le sue promesse si sono trasformate in letame”. Non è finita: la politica energetica tedesca è “idiota”, la Germania “spende molto più della Francia nella difesa ma l’esercito francese comprende sei brigate molto capaci, mentre il Bundeswehr riesce a malapena a mettere insieme una singola brigata pronta al combattimento”. Sa come si colpisce il cuore dell’Europa, Vance, ma anche i leader più determinati nel difendere i valori occidentali dall’aggressione russa, come il premier polacco Donald Tusk che, secondo il neonominato vicepresidente nel ticket repubblicano, sta mettendo la Polonia sulla via dell’autoritarismo – sì, ha detto proprio autoritarismo. Certo, Trump e Vance devono ancora vincere le elezioni di novembre; certo Trump è noto per aver fatto fuori gran parte dei suoi collaboratori – vale la pena ricordare che l’ultimo suo vicepresidente era nel mirino della folla insurrezionista del 6 gennaio che gridava: impiccatelo! – e Vance si sta prendendo già ora uno spazio nei media che Trump considera sua esclusiva (noi rivolgiamo un pensiero anche a Donald jr, che ha pure caldeggiato Vance, che sembra un erede, come dire, più solido di lui); certo è ancora tutto da decidere e i vicepresidenti contano il giusto, ma finora la politica transatlantica di Bruxelles si è basata sul rapporto personale, ottimo, tra von der Leyen e Biden. Come la Nato si prepara, così serve che lo faccia l’Europa, ma dovrebbe dotarsi di una progettualità, oltre che del terrore di dover avere a che fare con questa coppia.
Orbán, il corpo estraneo. C’è un bacillo nel corpo dell’Europa, a guardare con attenzione più uno, ma uno si vede a occhio nudo ed è il primo ministro dell’Ungheria che in queste ultime settimane si è intestato una “missione di pace”, così la chiama lui. Dopo aver preso il primo luglio la presidenza del semestre europeo, è andato prima Kyiv, poi a Mosca, poi a Pechino infine a Washington per il summit della Nato e anche per tessere i suoi legami con Trump. Bruxelles ha osservato queste visite con preoccupazione e rabbia, non ha preso nessuna misura contro il primo ministro. Dopo il suo tour Orbán ha inviato una lettera per proporre all’Unione europea di cambiare strategia sull’Ucraina, ha rimproverato i suoi colleghi per aver copiato “la politica pro guerra” di Biden, ha detto che Kyiv e Mosca non sono pronte al cessate il fuoco e l’intensità del conflitto aumenterà, ma sarà Donald Trump a farlo finire: “Ha piani dettagliati e ben fondati”, ha scritto l’ungherese. E’ stato il presidente del Consiglio europeo Charles Michel a rispondere a Orbán, sempre con una lettera in cui ha sconfessato tutte le parole del primo ministro ungherese, ma nonostante Michel abbia preso carta e penna per rispondere, le iniziative del leader di Budapest che appaiono sabotaggi dentro all’Ue sono rimasti impuniti. Vladimir Putin sa di poter contare su Orbán, Donald Trump sa di poter contare su Orbán, Xi Jinping lo stesso e tutte queste fiducie messe insieme indeboliscono l’Ue.
Boris Johnson è andato a trovare Trump, si sono fatti una foto assieme con il pollice alzato, l’ex premier britannico, che inizierà a settembre il tour per il suo libro e che intanto fa l’ambasciatore informale dell’Ucraina nel mondo, ha detto all’ex presidente americano: abbandonare Kyiv è un errore gigante. Keir Starmer, il nuovo premier laburista che ha messo fine a quattordici anni di governo conservatore (tra cui anche il mandato di Johnson), sta iniziando a smontare parte della Brexit per abbassare il prezzo del divorzio dall’Ue e mette come terreno comune su cui ritrovarsi proprio la sicurezza europea e la difesa dell’Ucraina. L’Europa che verrà potrebbe ritrovare molta più affinità con Londra, mentre perde quella con Washington, il che è una grande rassicurazione, in termini ideali ma anche pratici: in fondo la Brexit era il modello per molti, e ora non lo è più nessuno. Ma vorrete sapere che cosa pensa Vance del nuovo governo laburista a Londra? A inizio giugno ha detto: “Stavo parlando di recente con un amico di uno dei pericoli più grandi a livello globale, che è la proliferazione nucleare, pure se Joe Biden non sembra preoccuparsene. Discutevamo di quale potrebbe essere la prima nazione davvero islamista che ottiene un’arma nucleare, forse l’Iran, forse il Pakistan di fatto già vale in questo conteggio, e poi alla fine ci siamo ritrovati d’accordo sul fatto che forse è il Regno Unito, da quando il Labour ha preso il sopravvento”.