All’ultimo vertice europeo, Viktor Orbán è rimasto parecchio solo: gli altri leader dell’Ue parlano, sorridono, si fanno i selfie, discutono e il premier ungherese li osserva torvo da un angolo. E’ annoiato, è infastidito, è sovrappeso, cosa che a lui che al fisico da atleta, da calciatore, teneva molto deve dispiacere quanto queste serate con compagni di viaggio tanto insopportabili. Pochi giorni prima di arrivare a Bruxelles, Orbán aveva commemorato la rivolta di Budapest contro l’Unione sovietica del 1956 e come fa ormai da un po’, sempre nella stessa occasione, aveva detto di nuovo: alla repressione sovietica sono seguiti “i sermoni” di Bruxelles, ma Mosca era una tragedia mentre l’Ue è soltanto una “brutta parodia contemporanea”. Ma soprattutto: “Dovevamo ballare al fischio di Mosca. Anche Bruxelles fischia, ma noi balliamo soltanto se ci va di farlo” – lui ride, seguono applausi fortissimi. Il paragone tra l’Unione sovietica e l’Ue è ormai entrato nel manuale del modello ungherese, ma a giudicare dal sorriso compiaciuto che Orbán ha nella foto in cui stringe la mano a Vladimir Putin il 17 ottobre a Pechino sembra che sia stato fatto un passo ulteriore: la Russia è meglio dell’Europa. E la Cina? Pure. Nessun leader europeo aveva più stretto la mano a Putin dopo che il Tribunale internazionale ha deciso di emettere un mandato d’arresto per il presidente russo a causa dei crimini commessi in Ucraina, ma Orbán non risponde alle telefonate europee né alle richieste europee: fa di testa sua e la sua testa guarda verso i regimi, non verso le democrazie. O meglio, fa così la maggior parte del tempo perché quando c’è invece da passare alla cassa per permettersi di mantenere il proprio piccolo regno con i fasti economici alle spalle, allora la famiglia europea eccome se conta. Paga Pantalone, insomma. Ma se l’Ue ha cercato di mettere condizioni all’erogazione dei propri fondi, riuscendo a contenere l’ostruzionismo persistente del premier ungherese, ora Orbán ha affinato ulteriormente la sua arte del sabotaggio interna e sta diventando un guaio sempre meno aggirabile. In più ha appena ritrovato un alleato, l’unico che lo ha fatto sorridere nel vertice europeo passato nell’angolo: è Robert Fico, ex primo ministro slovacco, una vecchia conoscenza di quelle che l’Ue si sarebbe risparmiata volentieri di incontrare ancora e che invece guiderà il prossimo governo di Bratislava. L’alleanza Orbán-Fico fa sì che due paesi piccoli, impoveriti e contrari ai princìpi che tengono insieme l’Ue diventino un ostacolo all’efficacia di un consesso enorme. E’ davvero così? E come si disinnesca? Abbiamo provato a rispondere a queste domande.
Orbán scatenato. Tornato da Pechino dove si è fatto notare per l’incontro con Putin, a Bruxelles Orbán ha fatto squadra con Fico per criticare i piani dell’Ue di finanziare la difesa dell’Ucraina con 50 miliardi di euro per i prossimi quattro anni. Tornato a Budapest ha annunciato una consultazione popolare nazionale diretta contro le istituzioni di Bruxelles: le domande agli ungheresi riguarderanno il finanziamento dell’Ucraina, la revisione del bilancio dell’Ue, il nuovo Patto su migrazione e asilo, i sussidi per l’energia che la Commissione europea vuole far tagliare. “Useremo il nostro strumento politico più potente: la volontà e l’opinione della gente”, ha annunciato il portavoce di Orbán, Zoltán Kovács. La consultazione nazionale di Orbán non è un referendum, ma una sorta di grande sondaggio. I referendum sono rischiosi perché possono essere boicottati, come è accaduto con quello sui migranti, che era stato organizzato in concomitanza con le ultime elezioni ungheresi, che non aveva raggiunto il quorum e lo stesso è accaduto, proprio sui migranti, anche alle ultime elezioni . Ma il problema per l’Ue non sono tanto i quesiti del premier ungherese, ma il fatto che Orbán sia passato dalle parole ai fatti. In passato, fino a qualche mese fa, Orbán “diceva le cose sbagliate in pubblico, e faceva le cose giuste in privato”, ha detto la premier estone, Kaja Kallas, a margine del Consiglio europeo. Criticava le sanzioni dell’Ue contro la Russia, ma poi, in cambio di qualche concessione, le approvava. Ora non è più così. Da giugno Orbán sta bloccando l’ottava tranche da 500 milioni di euro della European Peace Facility per finanziare le forniture di armi: l’Ungheria ha paralizzato il dibattito sulla proposta di un fondo per le armi all’Ucraina da 20 miliardi. Budapest minaccia il veto sulla proposta della Commissione di 50 miliardi di prestiti e sovvenzioni da versare al bilancio ucraino. Nelle prossime settimane Orbán potrà minacciare o mettere il veto sul dodicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia così come sull’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina.
Al vertice europeo è stato chiesto ai due leader se sono consapevoli del rischio di non aiutare l’Ucraina
Oltre l’Ucraina. Ci sono altri dossier essenziali per l’Ue su cui Orbán potrebbe mettere il veto. Il Consiglio europeo si è spaccato sulla revisione del quadro finanziario pluriennale (il bilancio 2021-27). La proposta della Commissione prevede, tra l’altro, 15 miliardi per le politiche migratoria ed estera. “Non vogliamo fornire denaro ai migranti”, ha detto Orbán. Molti a Bruxelles ritengono che il premier ungherese possa ancora essere persuaso, diciamo così, utilizzando i fondi europei: la Commissione ha congelato le risorse di NextGenerationEu e della politica di coesione destinate all’Ungheria perché non rispetta lo stato di diritto. Ursula von der Leyen potrebbe trovarsi di fronte al dilemma di chiudere gli occhi sulle derive di Orbán e sbloccare i fondi per Budapest pur di non rischiare uno stallo totale. Ma dopo l’incontro con Putin, i molteplici veti e la nuova consultazione popolare anti Ue, “si sta superando il limite”, ci ha detto un alto funzionario. Ma Orbán ha il diritto di veto, quindi il coltello dalla parte giusta.
Il ritorno di Fico. Come tutti si aspettavano, Robert Fico ha usato il ritorno al Consiglio europeo per affiancare Orbán nella difesa degli interessi russi sulla guerra in Ucraina. Il premier slovacco ha confermato che il suo governo interromperà le forniture di armi all’Ucraina: “Sosterrò zero aiuti militari a Kyiv – ha detto – L’immediata sospensione delle operazioni militari è la migliore soluzione che abbiamo per l’Ucraina. L’Ue dovrebbe trasformarsi da fornitrice di armi in pacificatrice”, ha detto Fico. Il premier slovacco ha anche minacciato un veto sul dodicesimo pacchetto di sanzioni. “Non voterò per nessuna sanzione contro la Russia fino a che non avremo l’analisi del loro impatto sulla Slovacchia”, ha detto, sottolineando che le precedenti sanzioni hanno danneggiato il suo paese. Anche in questo caso è la stessa argomentazione usata da Orbán, che con la minaccia del veto è riuscito a strappare esenzioni per l’Ungheria nei precedenti pacchetti di sanzioni. E, come Orbán, Fico ha lasciato intendere di essere scettico sulla proposta della Commissione di stanziare 50 miliardi di euro di prestiti e sovvenzioni per l’Ucraina per i prossimi quattro anni. La ragione? “L’Ucraina è uno dei paesi più corrotti al mondo e il sostegno finanziario è condizionato alla garanzia che il denaro europeo, compreso quello slovacco, non venga sottratto”, ha spiegato su Facebook Fico, che fu costretto a dimettersi nel 2018 a seguito dell’assassinio di un giornalista che indagava su scandali di corruzione legati al suo governo.
La sospensione dal Pse. La decisione del Partito socialista europeo di sospendere il partito di Fico, lo Smer, per la coalizione con l’estrema destra non sembra aver avuto alcuna influenza. Il premier slovacco ha piazzato personalità pro russe nei ministeri chiave degli Esteri e della Difesa e ha affidato all’estrema destra i portafogli della Cultura e del Clima. Eppure dentro l’Ue in molti sperano che Fico non sia il gemello di Orbán. Le parole pronunciate dal premier slovacco sull’Ucraina al Consiglio europeo “non sono state lette come un no”, ci ha spiegato una fonte europea: “Fico in passato ha saputo dimostrarsi pragmatico”. Quel che è certo è che governare, per Fico, sarà molto più complesso che per Orbán, il suo partito fa parte di una coalizione, non di una maggioranza monocolore come nel caso del Fidesz ungherese. Peter Pellegrini, il leader del partito di centrosinistra Hlsa che alleandosi con Fico è diventato nuovo presidente del Parlamento, ha detto di essere favorevole a proseguire le forniture di armi all’Ucraina su base commerciale: “Se qualcuno ordina e paga per questi sistemi, allora è un sostegno all’industria slovacca”, ha detto. Ma il rischio di illudersi è altissimo. Dopo il Consiglio europeo, la premier estone, Kallas, ha raccontato che durante la riunione a porte chiuse sono state poste diverse domande a Orbán e Fico. “Come vedete il futuro? Se non aiutiamo l’Ucraina, qual è l’alternativa? La Russia vince? E poi cosa succede? Perché pensate che sarete più al sicuro quando abbandoneremo l’Ucraina invece di sostenerla ora? Queste sono le domande a cui non hanno risposto”, ha detto la premier estone.
L’opzione più forte. Il ritorno di Tusk a Varsavia ha rianimato la speranza di poter finalmente procedere con una punizione esemplare di Orbán che ha trasformato l’Ungheria in una “autocrazia elettorale”, come l’ha definita il Parlamento europeo in una sua risoluzione. La punizione contemplata è l’applicazione dell’articolo 7 del trattato: privare un paese che vìola i princìpi e i valori fondanti dell’Ue (dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e diritti fondamentali) del diritto di voto in Consiglio. A Bruxelles viene definita “l’opzione nucleare” tanto la sanzione è politicamente esplosiva. La procedura contro l’Ungheria (e contro la Polonia) è stata avviata da tempo dalla Commissione e dal Parlamento. Ma finora non ha portato da nessuna parte perché per passare alla fase delle sanzioni serve un voto unanime degli altri stati membri e finora Orbán l’ha evitato grazie alla protezione reciproca che si sono garantite Ungheria e Polonia: con la fine del governo del PiS a Varsavia, il premier ungherese perde un alleato importante nel braccio di ferro sullo stato di diritto. Non per questo, però, la sanzione suprema è certa. Il ritorno di Fico al governo in Slovacchia potrebbe garantire a Orbán la protezione di cui ha bisogno. E togliere dall’imbarazzo il governo italiano di Giorgia Meloni che, altrimenti, si troverebbe di fronte al dilemma di votare per difendere un alleato sovranista o per difendere la democrazia.
Con Tusk a Varsavia, Budapest perde un alleato importante per la sua lotta contro Bruxelles. Cosa prevede l’articolo 7
L’esempio polacco. Le coloratissime, infreddolite, libere elezioni in Polonia hanno riportato al centro del dibattito un tema importante: l’involuzione democratica di un paese, può essere invertita? Sì, ha gridato forte Varsavia, che ha preso una decisione seria anche dimostrando al mondo che la prima protezione dei valori democratici la garantiscono i cittadini. Tusk, amato dalle istituzioni europee, su questo ci ha scommesso, e nelle scorse settimane è andato a Bruxelles a stringere la mano ai suoi colleghi di un tempo. Tutti gli hanno detto ben tornato. Ma l’ex premier, ex presidente del Consiglio europeo, ex presidente del Partito popolare europeo, non era andato soltanto a rivedere vecchi amici – come hanno malignato i suoi detrattori – era andato per assicurarsi l’esborso dei 35 miliardi di euro di fondi bloccati per via della scellerata riforma della Giustizia voluta, e mai corretta, dal PiS. Di quel denaro la Polonia ha bisogno e in questo momento Tusk ne è la garanzia.
L’asse di Visegrád era nato nel 1991 come un laboratorio di europeismo per i paesi che uscivano dal Patto di Varsavia e che erano desiderosi di entrare nell’Unione. Prima ancora, nel 1335, era stato un congresso medievale che aveva riunito Giovanni I di Boemia, Carlo I d’Ungheria e Casimiro III di Polonia, che volevano rafforzare i loro commerci. L’idea di rivedersi tutti a Visegrád, negli anni Novanta, aveva l’obiettivo di promuovere un’alleanza dal sapore europeista, che improvvisamente, vent’anni dopo, si è trasformata nel suo contrario: nell’alchimia sulfurea di paesi che si stavano allontanando da Bruxelles. Tra questi la Repubblica ceca è stata sempre la meno a rischio. Piccola e guardinga ha sempre tutelato la sua democrazia, anche se per le sue istituzioni sono transitati miliardari sanzionati dall’Ue, presidenti nostalgici della giovinezza comunista. Adesso che sta tornando anche la Polonia, il cuore di Visegrád torna a battere e ci ha confidato di aver un sogno molto ambizioso: ospitare un giorno Kyiv, studiare insieme un’integrazione europea che faccia bene a tutti.
(ha collaborato David Carretta)